Roma, 23 giu – Il multipolarismo ha già fallito? Mentre in Ucraina, Medio Oriente e Golfo Persico si combattono tre conflitti paralleli, le mappe geopolitiche vengono aggiornate ogni giorno. Ma una cosa è già chiara: diverse narrazioni ideologiche molto diffuse negli ultimi anni sono crollate sotto i colpi della realtà.
Il multipolarismo e il bene contro il male
La più diffusa – soprattutto in ambienti critici dell’unipolarismo occidentale – era quella che descriveva un’élite liberal globale, fanatica e guerrafondaia, in lotta contro un fronte emergente fatto di Stati sovrani, guidati da leader identitari e orientati alla pace tra le civiltà. Questo fronte, secondo la narrazione, avrebbe rappresentato un’alternativa multipolare armoniosa, fondata sul rispetto delle diversità culturali e sull’opposizione all’agenda progressista occidentale. Oggi, guardando ai fatti, nessuno di questi presupposti sembra reggere.
I leader del “fronte sovranista” sono in guerra
Le guerre in corso – Russia contro Ucraina, Israele contro Hamas e Hezbollah, Israele contro l’Iran – non sono state innescate da esponenti dell’élite liberal, bensì da tre figure spesso elevate a simboli del fronte sovranista: Vladimir Putin, Benjamin Netanyahu e Donald Trump. Tre leader che negli ultimi anni hanno raccolto il consenso di chi, in Occidente, si opponeva all’agenda globalista, alla “cancel culture” e alle interferenze atlantiche. Eppure, sono proprio loro oggi a guidare conflitti su vasta scala, senza alcuna giustificazione “woke”, senza che c’entri nulla la bandiera arcobaleno o l’inclusività nei film. Le cosiddette “culture wars”, almeno sul piano geopolitico, si sono rivelate un fenomeno marginale, scollegato dai veri meccanismi del potere internazionale.
Multipolarismo? Più slogan che realtà
Un’altra grande illusione degli ultimi anni è crollata con l’attacco congiunto di Stati Uniti e Israele contro i siti nucleari iraniani: la credenza in un blocco multipolare compatto, pronto a sfidare l’unipolarismo occidentale. In teoria, l’Iran avrebbe dovuto essere difeso dai suoi alleati nel Sud globale: Russia, Cina, India, i Paesi arabi, i Brics. In pratica, nessuno è intervenuto. Nessuno ha fatto pressione seria. Nessuno ha coordinato una risposta. La Russia, in particolare, è diventata bersaglio di critiche dirette da parte degli stessi ambienti iraniani. Un importante canale militare vicino ai Guardiani della Rivoluzione (Irgc), con oltre 60.000 iscritti, ha scritto testualmente: “La natura corrotta dei russi e le loro continue e perfide pugnalate alle spalle in questi giorni difficili sono un problema noto. Quando è arrivato il nostro giorno difficile, ci hanno abbandonato facilmente”. Il post denuncia anche la teatralità delle relazioni russo-iraniane, evocando con sarcasmo gli incontri con personaggi come Aleksandr Dugin, portato in pellegrinaggio a Karbala per parlare di “nuovo ordine della fine dei tempi”. Non è solo uno sfogo propagandistico, è una presa di distanza lucida e amara. Per molti in Iran, la Russia non è un alleato: è un calcolatore cinico, che si limita a vendere armi, senza alcuna solidarietà concreta. La Cina ha mantenuto il silenzio, infastidita dall’instabilità e ben attenta a non compromettere i suoi rapporti con Usa, Tel Aviv e i partner del Golfo. L’India, grande acquirente dell’industria militare israeliana, ha più da guadagnare dalla crisi che da un’eventuale solidarietà con Teheran. Le monarchie wahhbite, infine, hanno accolto con una malcelata acquiescenza l’indebolimento dell’Iran sciita, in linea con la ristrutturazione del Medio Oriente in chiave israelo-saudita. Il tanto decantato fronte multipolare non esiste, se non nei documenti delle conferenze e nei meme geopolitici. Esistono interessi divergenti, accordi opportunistici, ambiguità strategiche. E ora anche l’Iran, nel momento più drammatico della sua storia recente, sembra prenderne atto pubblicamente.
L’unipolarismo non è finito. È solo cambiato volto
C’è anche chi ha letto questi scenari come la fine definitiva dell’unipolarismo a guida americana. Ma l’attacco congiunto a Fordow, Natanz ed Esfahan dimostra il contrario: gli Stati Uniti restano l’unico attore in grado di proiettare forza ovunque nel mondo, l’unico in grado di gestire una guerra simultanea su più fronti, con il sostegno attivo – o quantomeno il silenzio – di quasi tutti gli alleati. Se c’è una differenza, è nel linguaggio. Non si parla più di “esportare la democrazia” o “diritti umani”, ma l’effetto è lo stesso: gli equilibri si decidono ancora a Washington, con i droni, i sottomarini e i B-2 stealth. Il potere unipolare è ancora lì. Ha solo perso la pazienza e le buone maniere. E come nel 2003, quando la guerra in Iraq spaccò l’Europa e fece saltare il progetto di difesa comune, anche oggi l’Europa rischia di uscire dal tavolo da gioco. L’intervento statunitense in Iran arriva proprio mentre si riapre il dibattito sul riarmo europeo e sulla costruzione di un esercito comunitario. Un déjà vu inquietante, che mostra come ogni tentativo di autonomia strategica venga regolarmente disinnescato da un’escalation esterna che costringe le capitali a riallinearsi.
Iran e Ucraina: così lontani così vicini
Due Paesi apparentemente lontani – per cultura, religione, storia e sistema politico – Ucraina e Iran si ritrovano oggi nella medesima condizione strategica: quella di nazioni di frontiera, troppo autonome per essere tollerate, troppo esposte per essere ignorate. L’Ucraina è stata aggredita nel momento in cui cercava un’integrazione europea che non le era stata ancora garantita, sospesa tra un passato post-sovietico e un futuro occidentale solo promesso. L’Iran, invece, viene colpito mentre l’intero Medio Oriente si ricompone senza di lui, con Israele e le monarchie sunnite che consolidano un nuovo asse economico e militare, lasciando Teheran sola, accerchiata e marginalizzata. A legarle è anche un altro elemento strutturale: il nucleare. Kiev ha rinunciato al suo arsenale nel 1994 in cambio di garanzie di sicurezza che si sono rivelate illusorie; Teheran viene bombardata non per ciò che ha, ma per ciò che potrebbe, un giorno, sviluppare. Entrambe trattate come minacce atomiche pur non essendo potenze nucleari. Il paradosso è evidente: chi non ha il nucleare è più facile da colpire. E così, Ucraina e Iran condividono una stessa condanna geopolitica: sono potenze intermedie, abbastanza rilevanti da turbare, ma troppo vulnerabili per imporsi da sole. In un sistema internazionale che accetta la sovranità solo quando è sotto controllo, il vero “reato” di queste nazioni è l’ambizione all’indipendenza piena.
Fine delle narrazioni, inizio della realtà
Le guerre in corso stanno rivelando l’inconsistenza delle grandi narrazioni consolatorie. Non esiste un fronte del bene, né liberal né sovranista. Non esiste un’alleanza multipolare coesa. E le dinamiche reali del potere non seguono le logiche della propaganda culturale o dei social network. Il multipolarismo, per ora, è un concetto evocativo ma privo di struttura. L’unipolarismo è ancora solido, anche se meno elegante. E persino l’Iran, che in quell’alternativa ci aveva creduto, oggi scopre di essere solo. Chi vuole capire davvero dove va il mondo deve accettare la complessità, uscire dalla logica binaria, e tornare a osservare i rapporti di forza per quello che sono. Anche quando non corrispondono alla narrazione più comoda.
Sergio Filacchioni