Roma, 3 mag – Nel nostro tempo di slogan moralistici e politica debole, il nome di Machiavelli continua a suscitare sospetto. Essere definiti “machiavellici” equivale a essere tacciati di cinismo, doppiezza, spregiudicatezza. Eppure, nulla è più ingiusto. Dietro quel nome, che per secoli è stato associato alla manipolazione e al tradimento, si cela un vero patriota. Un uomo che, con lucidità e coraggio, preferì – parole sue – la sua patria alla sua anima.
Machiavelli, il patriota senz’anima
Niccolò Machiavelli, nato a Firenze il 3 maggio del 1469 e morto il 21 giugno del 1527, fu innanzitutto un servitore dello Stato. Diplomazie, guerre, trattative: la vita lo condusse nel cuore delle vicende che sconvolgevano l’Italia. Ma fu proprio l’Italia la sua vera ossessione. In un’epoca in cui si moriva per Firenze o Venezia, ma non per la Penisola, Machiavelli fu tra i primi a pensare l’Italia come nazione, seppure ancora senza corpo. L’Italia che lui vedeva era smembrata, contesa da stranieri, dominata dagli intrighi dei papi e dai condottieri mercenari. Un’Italia serva, umiliata, senza spina dorsale. L’invasione di Carlo VIII nel 1494 segnò uno spartiacque. Da allora, la Penisola fu scossa da guerre continue, con francesi e spagnoli che si spartivano il bottino, mentre le città italiane si accapigliavano per sopravvivere. Machiavelli, testimone di quel disastro, scrisse Il Principe, non per incensare il potere arbitrario, ma per indicare la strada al governante capace di restaurare l’ordine e la dignità nazionale. Non a caso, nel capitolo conclusivo, lancia un appello infuocato: “È tempo, dunque, che un nuovo principe d’Italia appaia…”.
Non moralismo, ma efficacia
La sua visione era brutale solo per chi crede ancora che la politica si faccia con i buoni sentimenti. Machiavelli non chiede bontà al sovrano, ma virtù, quella forza virile fatta di audacia, intelligenza, senso della realtà. Sa che la Fortuna – capricciosa e instabile – governa metà delle azioni umane, ma l’altra metà è dominata dalla volontà dell’uomo, se egli è abbastanza forte. Ecco perché il principe ideale deve essere leone e volpe insieme: forza e astuzia. È in questa combinazione che si gioca la salvezza dello Stato. Ammira, per questo, figure come Cesare Borgia, l’unico che ebbe, seppur brevemente, la stoffa del salvatore. E persino papa Alessandro VI, “che non pensava mai ad altro che a ingannare il prossimo”, merita per lui stima: non per moralismo, ma per efficacia.
La riflessione sul cristianesimo
Nemmeno la religione sfugge alla sua analisi: per Machiavelli, il cristianesimo ha educato gli uomini alla sottomissione e alla sofferenza, indebolendoli rispetto alla religione romana, che esaltava forza, onore, grandezza d’animo. Non è un attacco alla fede, ma un monito: uno Stato forte ha bisogno di una religione virile, non remissiva. Lo scrive con chiarezza nel Discorso sulla prima deca di Tito Livio:
«La nostra religione ha posto il sommo bene nell’umiltà, nell’abiezione e nel disprezzo delle cose umane; l’altra [la religione romana] lo poneva nella grandezza d’animo, nella forza del corpo e in tutte le altre cose atte a rendere gli uomini forti. Se la nostra religione esige forza, la vuole più adatta a patire che a fare cose forti. Questo modo di vivere, quindi, sembra aver reso il mondo debole e averlo consegnato in preda ai malvagi».
(Discorsi, Libro II, Cap. 2)
Machiavelli non fu dunque il padre della menzogna, ma un realista visionario, il primo a capire che l’Italia non poteva essere salvata con la predica o la preghiera. Occorreva un Principe. Occorreva la forza. Occorreva il coraggio di mettere la patria prima della propria anima.
Da Machiavelli a Corradini
Ma fermarsi all’Italia sarebbe riduttivo. Machiavelli era italiano nel sangue, ma europeo nella visione. Non a caso, il suo pensiero influenzò profondamente la cultura politica del continente intero: da Hobbes a Rousseau, da Spinoza a Nietzsche. Machiavelli è stato il pensatore della sovranità reale contro l’astrazione universalista, della politica come scienza dell’efficacia, della libertà come forza organizzata: « Roma e Sparta restarono per molti secoli armate e libere ». Un pensiero tutto romano, ma con ambizione imperiale. Un pensiero a cui infatti giunge un altro nazionalista “imperiale”, Enrico Corradini, nel primo Novecento. Nella sua opera principale, L’unità e la potenza delle nazioni, Corradini afferma ripetutamente che ogni nazione è animata da una naturale volontà di espandersi, cioè di dominare le altre collettività e di conquistare nuovi territori, quindi di riflesso, solo la forza organizzata di una collettività può frenare la forza organizzata di un’altra. Da qui una sentenza che farebbe storcere il naso a molti: «Tutti gli Stati sono imperialisti». Il Corradini, come Machiavelli, sostiene che l’unico fattore che permette a una nazione di non cadere vittima dell’imperialismo altrui è la propria potenza, la quale è intesa come il risultato della demografia, della ricchezza, della forza dell’esercito, del coraggio e dello spirito di sacrificio della popolazione In altre parole: la capacità militare è lo strumento che consente alla comunità di rimanere libera. Come direbbe Enrst Jünger: “l’inviolabilità del domicilio si fonda sul capofamiglia che, attorniato dai suoi figli, si presenta sulla porta di casa brandendo la scure”.
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«Non ci sono confronti possibili tra un uomo armato e uno disarmato. E non è credibile che l’armato obbedisca volentieri al disarmato, o che il disarmato possa vivere tranquillo fra servitori armati.»
(Il Principe)
Con uno sforzo di comprensione, non è difficile capire che oggi l’Europa rischia di ripetere il destino della penisola frammentata all’epoca delle Guerre d’Italia: un insieme di stati deboli, divisi e incapaci di opporsi alle pressioni delle grandi potenze esterne. Come allora francesi e spagnoli guardavano alla nostra terra, oggi Stati Uniti, Russia, Cina e Turchia osservano e influenzano un continente privo di coesione e potere decisionale autonomo. La subordinazione militare e politica, evidente nella dipendenza da Washington e nella presenza di truppe americane, si accompagna alla crescente aggressività di Mosca e all’espansionismo turco. In assenza di un’unità vera e concreta, ma soprattutto armata, l’Europa è destinata all’irrilevanza geopolitica e al declino culturale. Solo un’unione continentale forte potrà restituire agli europei la capacità di autodeterminarsi e di prosperare. A distanza di cinque secoli, Machiavelli parla ancora. Non ai burocrati. Non ai pacifisti. Ma a chi ha ancora nel petto il fuoco di Roma e negli occhi l’idea di un’Europa potenza. Occorre ancora una volta la volontà di mettere la patria – e il destino dei popoli europei – prima della propria anima. Soprattutto in tempi in cui la patria è spesso ridotta a folklore, e l’anima si svende al primo straniero di passaggio.
Sergio Filacchioni