Roma, 23 sett – La storia della questione palestinese è spesso raccontata solo attraverso il prisma delle grandi potenze anglosassoni o del sionismo. Eppure, negli anni Trenta, ci fu un momento in cui l’Italia fascista fu il primo Stato europeo a sostenere concretamente la rivolta araba in Terra Santa. Non soltanto con proclami, ma con soldi, armi, uomini e piani tanto audaci quanto inconsistenti.
L’intuizione del 1921: Mussolini nomina la “questione palestinese”
Non tutti lo sanno, ma il primo pro-Pal della storia è stato proprio il Duce. Nel suo esordio parlamentare, il 21 giugno 1921, Mussolini afferma che, dopo l’allocuzione di Benedetto XV, «non è più possibile ignorare che esiste una questione della Palestina» e incalza il governo a scegliere «o il punto di vista sionistico-inglese, o quello del Vaticano». Richiama la Dichiarazione Balfour, il mandato britannico e un quadro demografico nitido («600.000 arabi, 70.000 cristiani, 50.000 ebrei»), segnala la saldatura arabo-cristiana intorno alla Conferenza di Jaffa e i disordini del 1° e del 14 maggio; ma soprattutto, invita Roma a non appiattirsi sulla linea di Londra, adottando invece un’impostazione “universale” prossima al Vaticano. A scanso di equivoci, apre una parentesi: «non si deve vedere nelle mie parole alcun cenno ad un antisemitismo», riconoscendo il sacrificio degli ebrei italiani in guerra. È una cornice strategica più che un piano operativo, ma è una cornice precoce e chiara. Mussolini però centra in pieno un punto politico: nel 1921 la Palestina non è ancora “la” questione del Novecento, eppure il futuro Duce la tematizza come banco di prova della collocazione italiana tra sionismo-Inghilterra e Vaticano-cristianità orientale. Una scelta di campo annunciata in termini espliciti, con attenzione ai rapporti di forza reali sul terreno.
1936–1938: denaro, reti e materiali. L’Italia nella prima intifaḍa
A metà degli anni Trenta, la diagnosi diventa pratica di potenza. Come ricostruito su base archivistica (Farnesina e Stato Maggiore), tra il 10 settembre 1936 e il 15 giugno 1938 Roma versa al Gran Muftì di Gerusalemme, Hājj Amīn al-Ḥusaynī, circa 138.000 sterline – una somma enorme per l’epoca – per alimentare lo sciopero generale e la rivolta armata contro la potenza mandataria britannica e contro la crescente immigrazione ebraica. Parallelamente, tramite il SIM, si allestisce a Taranto un lotto di armi e esplosivi (4.248 fucili belgi con 7 milioni di cartucce; 40 mitragliatrici St. Étienne; 25 tonnellate di dinamite; 150.000 inneschi e 150.000 metri di miccia), acquistati in Belgio e destinati – tramite intermediari sauditi – ai mujāhidīn palestinesi. Il materiale resterà a lungo in deposito per difficoltà logistiche sulla rotta marittima-carovaniera, senza giungere a destinazione. Il dossier comprende anche piani non convenzionali (poi abortiti), come azioni di sabotaggio e perfino l’inquinamento dell’acquedotto di Tel Aviv: un “appunto per il Duce” del 10 settembre 1936 reca sigla e visto di Mussolini. L’insieme mostra una postura spregiudicata: colpire l’Inghilterra nel Levante, guadagnare prestigio tra i nazionalismi arabi, competere con la Germania per l’egemonia sull’immaginario anticoloniale, e – nello scenario migliore – subentrare nel mandato o, in subordine, forzarne l’internazionalizzazione.
Mussolini e l’idea dei “Due popoli, due Stati”
Fino al 1936 Mussolini coltiva anche un’altra ipotesi: una sorta di spartizione anticipata. Due popoli, due Stati, sul modello che decenni dopo diventerà slogan internazionale: una Palestina araba più estesa a nord, una entità ebraica più ridotta a sud di Gerusalemme. L’idea muore con la fine delle rivolte arabe, quando i risultati sul campo appaiono inconsistenti. Da quel momento il Duce imbocca con decisione la via filoaraba e panislamica, soprattutto in chiave antibritannica. La politica di Mussolini – ovviamente – non è mai stata lineare. Accanto al sostegno alla rivolta araba, emergono rapporti anche con lo sionismo. Nel 1934–36 il Duce incontra Chaim Weizmann, leader del movimento, e intrattiene contatti con il Partito revisionista di destra. Si parla perfino di facilitare l’emigrazione ebraica in Palestina o di ipotizzare insediamenti ebrei in Abissinia. Progetti ambiziosi, che si infrangono tra la diffidenza sionista e i timori di perdere consenso nel mondo arabo. Lo storico Renzo De Felice lo ha sottolineato: Mussolini teneva separate la “questione ebraica interna” e la “questione sionista internazionale”. Alla fine, però, fu la logica mediterranea a prevalere: usare la Palestina come leva di pressione contro Londra. E in seguito, nell’incontro del 1942 con il Gran Muftì, Mussolini chiarì per i posteri: «Se gli ebrei lo vogliono, fondino Tel Aviv in America».
Roma e Berlino contro Londra
Gli anni della guerra d’Etiopia e la vittoria del 1936 danno a Roma un prestigio imprevisto nel mondo islamico. Mussolini viene celebrato come “protettore dell’Islâm”, riceve a Tripoli la “spada dell’Islâm”, costruisce ospedali in Yemen e alimenta Radio Bari in arabo. L’Italia fascista si propone come alternativa imperiale e antibritannica. Non stupisce che nel 1937, a Giaffa, in occasione della nascita del Profeta, le strade si riempiano di bandiere con la svastica e di ritratti di Mussolini e Hitler affiancati. Fu a questo punto che anche Londra dovette rivedere la propria linea. L’intransigenza inglese si incrinò di fronte all’evidenza che l’Italia e la Germania non erano più comprimari da marginalizzare, ma potenze da cui dipendeva l’equilibrio del Mediterraneo. Si iniziò così a trattare: da un lato il riconoscimento dell’Impero italiano in Etiopia, dall’altro l’annessione austriaca al Terzo Reich. Ma sul tavolo restavano le questioni vitali – il Mar Rosso, Suez, la Libia, il Lago Tana – e proprio lì i negoziatori italiani mostrarono tutta la loro durezza, pretendendo di essere consultati su ogni possibile nuovo regime in Palestina. Mussolini non intendeva accettare che sotto l’ombrello britannico sorgesse uno Stato ebraico destinato a diventare una base militare al servizio di Londra. Pretese garanzie scritte, rivendicò il credito maturato con gli arabi e ne uscì rafforzato sul piano politico e propagandistico. Gli “accordi di Pasqua” del 16 aprile 1938 sancirono il riconoscimento britannico della conquista dell’Etiopia e il ritiro delle forze italiane dalla Spagna a guerra civile conclusa; la Francia si allineò poco dopo.
Dopo Mussolini arriva Yalta
La parabola dell’Italia fascista sulla questione palestinese si chiude con gli accordi di Pasqua del 1938 e con l’entrata in guerra al fianco della Germania. Da quel momento, Roma sarà assorbita in un conflitto globale al fianco dell’alleato tedesco. Il dossier palestinese, però, non scompare: diventa il terreno dove si misurano le due nuove superpotenze uscite vincitrici dal secondo conflitto mondiale. Quando nel maggio 1948 lo Stato di Israele proclamò l’indipendenza, fu infatti l’Unione Sovietica di Stalin a riconoscerlo per prima, tre giorni dopo. Mosca, che fino agli anni Venti aveva bollato il sionismo come espressione borghese, aveva già aperto spiragli di sostegno con la proposta di un’“autonomia ebraica” in Estremo Oriente e poi con la Risoluzione ONU 181, che prevedeva la spartizione della Palestina in due entità statali. Lì dove, negli anni Trenta, l’Italia fascista aveva cercato di giocare la propria partita di potenza mediterranea, si apriva ora un fronte globale dominato dall’ombra di Yalta. Oggi, più di cento anni dopo dal primo discorso di Mussolini alla Camera, la “questione palestinese” è più attuale che mai.
Sergio Filacchioni