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Non c’è rivoluzione maggiore che provare a salvare l’Italia: fino all’ultimo

by Stelio Fergola
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Roma, 26 ago – Si odono spesso urla e proclami rivoluzionari un po’ ovunque. Una gara irresistibile a chi sia “più dissidente” su questo o su quell’argomento, sulla Nato o sulla Russia, sulla Cina o su Washington. Con il particolare non secondario di non agire da dissidenti in nulla. Mediterraneo versus Europa quando la nostra storia è sempre e dico sempre stata orientata al primo piuttosto che alla seconda. La Grande Guerra, ovviamente, è un’eccezione. Perché non si trattò di una scelta geopolitica vera e propria, ma di un conflitto palesemente risorgimentale, necessario semplicemente a riunire alla Patria ciò che ancora le mancava.

L’unica vera rivoluzione è salvare l’Italia

In mezzo a questo coacervo di competizioni a chi ce lo ha più lungo, a chi è più duro e puro, a chi ha più curriculum di piazza, a chi ha preso più botte, una sola certezza: la rivoluzione vera è salvare l’Italia. Sotto ogni punto di vista in cui essa possa essere salvata: territoriale, etnico, culturale, storica, sociale ed economica.

La terra non si discute e si ama, e non me ne frega niente di quanto questa frase possa essere considerata banale. Tante espressioni sono banali eppure meravigliose. Tutto sta nel motivo che ci spinge a proferirle. Se è l’ipocrisia, che muoia Sansone, come si suol dire. Ma difendere la propria terra non dovrebbe essere neanche un’opzione, anche se per molti lo è, visto che c’è sempre qualche aspetto da considerare in modo “superiore”, che sia un approccio ideale o di altro genere. La nostra cultura esiste da almeno mille anni, se non oltre, se prendiamo come riferimento i Placiti cassinesi, ovvero la prima forma embrionale di lingua italiana, datata X secolo. Qualcuno vorrebbe già sostituirla con l’inglese “continentale” o meglio ancora con il francese. Per Gioacchino Volpe, il popolo italiano nasce un po’  prima, dalla fusione dell’ex impero con l’avvento dei Longobardi.

La storia d’Italia è quella di un Paese che senza unità statale riesce in diversi secoli a esprimere caratteri comuni semplicemente impressionanti: non bastasse la lingua (un miracolo a tutti gli effetti), ci sono anche l’arte, lo stesso Rinascimento e perfino le abitutini alimentari (anche se oggi sembra di descrivere le cucine locali italiani come se provenissero l’una dall’Asia e l’altra dall’Africa). Per non parlare dell’esportazione del linguaggio italiano come unico motore del fenomeno delle opere liriche tra XVI, XVII e XVIII secolo (a parte l’obiettivamente geniale tentativo di Wolfgang Amadeus Mozart di “innovare” questa tradizione con la scrittura di opere in tedesco). Senza dimenticare il fenomeno giansenista che “blocca” l’avvento della riforma protestante al di sotto delle Alpi.

I volti degli italiani nelle opere d’arte esprimono un’etnia che ha diritto di provare a sopravvivere esattamente come quelle che, nel mondo, vengono difese a spada tratta da qualsiasi minaccia di genocidio. Sono i volti dei dipinti di Raffaello, ma anche del Caravaggio. Proprio quel Caravaggio che nel XVI secolo inaugurava a tutti gli effetti un modo di dipingere italiano, emulato anche nel profondo Sud della Nazione da numerosi suoi “discepoli” (si pensi al napoletano Luca Giordano).

Ci sono tanti, troppi, che pensano che tutto questo sia sacrificabile. O che si illudono di preservarlo. Chi scrive pensa l’esatto opposto: la vera rivoluzione è salvare l’Italia, ciò che ne resta, o comunque fare di tutto per non contribuire alla sua sepoltura definitva.

Recuperiamo Mussolini, Mattei, il Mare Nostrum e il nostro valore

A leggere quasi tutti l’Italia sembra una Nazione abitata da ritardati e handicappati, incapaci praticamente di realizzare qualsiasi cosa. A dominare è un complesso di inferiorità totalmente immotivato e imbarazzante nei confronti della cosiddetta “mitteleuropa”. Ovvero ciò verso cui guardiamo, per meglio dire guardano gli altri, da destra a sinistra, dal Parlamento ufficiale a larghe sacche della altrettanto cosiddetta “dissidenza”. Un bisogno irrefrenabile di fare parte di un universo che è sempre stato franco-tedesco, dai tempi di Carlo Magno fino alle imposizioni dei “cugini” teutonici dell’Impero austriaco. Noi, in compenso, abbiamo sempre realizzato visioni maiuscole in altro ambito, quello mediterraneo. Sempre. La Grande Guerra, come si diceva, “è una rondine che non fa primavera”, anche se è del tutto improprio porla sullo stesso piano dell’età giolittiana, del Fascismo e di Benito Mussolini, delle iniziative di Enrico Mattei o di Bettino Craxi. C’era da completare l’unità nazionale e ciò che mancava era a Nord. Tutto lì.

Ma ciascuno di coloro che hanno guidato questa Nazione ai suoi periodi più floridi ha sempre messo al centro il Mare Nostrum. Sempre. E nessuna citazione perniciosa di una frase, di una stima, di una comunanza che può sempre esserci con chiunque potrà mai cambiare questo stato di Grazia. Per cui si usa la maiuscola in questo caso volutamente. Perché la Grazia è provare a risvegliarsi dal torpore. La Grazia è la rivoluzione di trovare una dimensione esclusivamente propria, senza negare accordi e strette di mano con gli altri che solo un completo imbecille potrebbe pensare di poter escludere.

Senza chiedersi se si riuscirà o meno: i volontari della Repubblica Sociale Italiana sono un esempio (come tanti altri a loro precedenti) di come lottare con il “calcolo del risultato” semplicemente non sia lottare, ma solo adeguarsi a una visione ritenuta più facile (spesso peraltro in modo anche ingenuo) per gonfiare il petto e illudersi di aver vinto qualcosa, senza aver, di fatto, cavato manco mezzo ragno dal buco. Onore e “palle cubiche” (mi si consenta la colorita espressione) da cui dovremmo solo imparare. Dalla copertina del libro di Teodoro Francesconi, ragazzo volontario della Rsi scomparso nel 2006: “Noi credevamo, obbedivamo e marciavamo per decine di ore, combattevamo e avevamo solo il fucile, morivamo per qualche cosa che si chiamava Patria, parola che oggi ha un suono buffo e non ha più alcun significato. Siamo stati volontari, gli ultimi volontari della storia d’Italia. Abbiamo creduto, abbiamo lottato, abbiamo perduto, abbiamo pagato, ma non abbiamo tradito noi stessi.

Stelio Fergola

 

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