Roma, 30 ago – Prima Repubblica, Seconda Repubblica, quante volte le sentiamo nominare? Quante volte noi stessi usiamo queste espressioni? A torto, e non soltanto da un punto di vista tecnico, ma anzitutto filosofico. Perché le persone comuni hanno le loro attività a cui badare, come è giusto che sia, e si trovano riversate addosso queste definizioni non avendo il tempo – sempre giustamente – di capirne il significato. E magari illudendosi che nella tormentatissima democrazia italiana sia davvero cambiato qualcosa dal 1948 ad oggi…
Prima e Seconda Repubblica non sono solo definizioni errate, ma culturalmente e socialmente dannose
Viviamo in un Paese imbottigliato da quasi 80 anni in un sistema istituzionale con due camere che fanno le stesse cose, fino alla scorsa legislatura con un numero di parlamentari spropositato (quasi mille), con un presidente del Consiglio che ha meno poteri di un amministratore di condominio e con un Parlamento che è onnipotente per bloccare qualsiasi idea discontinua e favorire tutto – ma proprio tutto – ciò che viene “proposto” dalle agenze internazionali europee e americane. Un sistema assurdo che nei primi 46 anni di esistenza è riuscito a compensare la ben poco confortante media di un governo all’anno solo grazie allo strapotere della Democrazia Cristiana, la cui costante presenza in ogni esecutivo ha aiutato a produrre politiche di lungo periodo, ma che una volta finito quell’universo (contestuale e non strutturale) ha palesato tutte le sue fragilità e inconsistenze.
Ora, perché Prima e Seconda Repubblica sono definizioni non solo sbagliate, ma anche socialmente dannose? Semplicemente perché diffondono – a livello puramente superficiale, nel cittadino poco attento come ripeto, è naturale che sia – un’idea di cambiamento istituzionale che non c’è mai stato, almeno nella struttura portante tra Parlamento e Governo. Di conseguenza, alimentano una mentalità anti-riformista già fortissima, in un Paese che ha detto no a praticamente tutte le versioni di riforma proposte, via referendum o meno (presidenzialismo, semipresidenzialismo, premierato forte e perfino una debolissima riforma del bicameralismo nel 2016). “Se già si è cambiato, non c’è motivo di cambiare ancora, tanto sono tutti uguali”, è un pensiero che, potete scommetterci, molti faranno, distratti dall’attesa spasmodica del prossimo stipendio e dalla necessità primaria di portare il pane a tavola.
Per stare sul puramente “tecnico” si parla di Seconda Repubblica quando c’è un cambiamento strutturale. Non quando tre quarti di parlamento viene liquidato da un’inchiesta giudiziaria, peraltro eterodiretta. La Quinta Repubblica francese del 1958 è tale perché fu modificata la Costituzione. La Seconda Italiana del 1994 è solo una cosa: un fake.
La necessità di contrastare le due espressioni
Siccome questo Paese ha tremendamente bisogno di una riforma che renda “normale” un sistema istituzionale assurdo, e siccome anche le cosiddette “dissidenze” extraparlamentari (di sinistra e di destra, ma in questo caso l’ottusità è più sinistra) faticano da morire a comprendere che un sistema governativamente più agile permetterebbe anche a loro – se un domani per miracolo arrivassero al governo – di poter senza dubbio fare di più che farsi bloccare qualsiasi cosa dal Parlamento onnipotente (ma solo per realizzare le agende internazionali summenzionate), l’invito è a contrastare questo “primo” e “secondo” che non ci sono mai stati, in un menu che è sempre lo stesso (schizofrenico, contraddittorio, pasticciatissimo) dal 1948 ad oggi.
Stelio Fergola