Roma, 4 lug – Giovedì 3 luglio 2025 la Russia ha ufficializzato ciò che da mesi si preparava: il riconoscimento dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan come governo legittimo, accettando le credenziali del nuovo ambasciatore talebano a Mosca. È un evento storico. È anche un segnale netto: i talebani non sono più un residuo marginale, ma un interlocutore politico internazionale. Che piaccia o no.
Mosca riconosce i talebani ufficialmente
Un gesto che non nasce dal nulla: Mosca aveva già rimosso i talebani dalla lista delle organizzazioni terroristiche lo scorso aprile, e li aveva invitati al Forum economico di San Pietroburgo. Ora, con tanto di bandiera bianca issata sull’ambasciata afghana nella capitale russa, l’operazione è completata. Putin ha definito i talebani “alleati nella lotta al terrorismo”. Un paradosso solo apparente, non se lo si guarda con gli occhi di chi oggi considera la geopolitica come puro scambio utilitaristico, privo di principi e legami valoriali. La realtà è che il riconoscimento dei talebani rivela il vero volto del “multipolarismo” tanto declamato qui da noi: un sistema che anziché fondarsi su civiltà organiche, visioni del mondo complementari (o addirittura irriducibili come dice qualcuno) o principi condivisi, si riduce a semplice spartizione del caos e gestione del disordine globale. Lungi dall’essere una nuova architettura dell’ordine mondiale, questo multipolarismo somiglia sempre più a una giungla di interessi concorrenti, dove si può passare – in pochi mesi – dall’elogio di Assad all’abbraccio con Tel Aviv. Una logica spietata che sbriciola ogni infantilismo geopolitico e ogni illusione di chi crede che il nemico dell’Occidente debba essere automaticamente un amico della “nostra” sovranità.
Cosa sono (davvero) i talebani
I talebani non sono semplicemente dei “barbari” venuti dal deserto. Sarebbe un errore “troppo occidentale”. Sono una forma estrema e brutale di resistenza spirituale, che ha usato l’Islam come collante identitario in un Paese devastato da guerre, occupazioni e ingerenze. Ma è inutile sottolineare che non c’è nulla di esemplare nelle loro leggi, né nella loro concezione della donna, dell’educazione o della politica. Ma va riconosciuta una coerenza profonda nella loro adesione integrale a un ordine religioso, per quanto chiuso e ostile a ogni pluralismo. Riconoscere i talebani significa inserirli in un sistema di relazioni internazionali, renderli interlocutori, e in ultima analisi trasformarli in soggetti funzionali a un nuovo assetto globale. La Russia può non approvarli sul piano ideologico, ma li legittima perché possono tornare utili: come clienti commerciali, come pedine strategiche, come strumenti di pressione contro l’Occidente. In questo senso, il riconoscimento non è un premio, ma un investimento. Kabul non entra nel club delle democrazie, ma in quello dei regimi tollerati perché funzionali. Ma così facendo Mosca non costruisce certo un’alternativa politica, piuttosto un’economia predatoria.
Il disordine sotto controllo
Per Mosca, la legittimazione dell’Emirato islamico risponde prima di tutto a logiche regionali. Non si tratta di un’alleanza ideologica, ma di una normalizzazione costruita nel tempo, già avviata attraverso contatti stabili, incontri ufficiali e una linea diplomatica di fatto. Il ragionamento è semplice: meglio un potere autoritario che garantisce ordine, che il vuoto istituzionale e il caos ai confini meridionali dello spazio post-sovietico. È una posizione che ricalca, in forma diversa, quella che l’Occidente ha spesso adottato verso altri regimi scomodi: tolleranza selettiva in cambio di stabilità. Ma proprio per questo, la strategia russa non è una reale alternativa all’imperialismo, ne è solo una variante tattica. Kabul non viene riconosciuta perché portatrice di qualcosa, ma perché utile al mantenimento dell’attuale disordine sotto controllo. Pensateci. In meno di un anno abbiamo assistito alla normalizzazione di Al Qaeda a ovest — tra Idlib e Aleppo, nella Siria “liberata” sostenuta dalla Turchia e tollerata dall’Occidente che tratta con Tel Aviv — e ora a quella dei talebani a est, con l’imprimatur della Russia. Due percorsi diversi, stesso esito: gruppi islamisti armati trasformati in amministratori locali, se non addirittura in partner di trattativa. È questo il vero “nuovo ordine globale”: non la vittoria di un campo sull’altro, ma la convergenza di entrambi verso un cinismo integrale, dove perfino il jihadista (ex nemico giurato) diventa funzionale tanto alla NATO quanto all’Eurasia. Un opportunismo sincronizzato…
La corsa alle risorse del mondo post ideologico
Dietro il riconoscimento politico c’è soprattutto una corsa alle risorse. L’Afghanistan è ricco di rame, ferro, litio, terre rare, gas, e rappresenta un territorio strategico per logistica, transito e controllo regionale. Paesi come Cina, India, Iran e ora anche la Russia non cercano un’alleanza ideologica con i talebani, ma accesso privilegiato a ciò che il territorio può offrire. In questo schema, il regime di Kabul non è un partner, ma un gestore di risorse a basso costo e con pochi vincoli. Nessuno chiede trasparenza, diritti, riforme: basta che i contratti vengano firmati e il territorio resti sotto controllo. È un modello già visto in Africa, ora applicato all’Asia centrale, dove la stabilità non è politica, ma commerciale. Il riconoscimento russo dei talebani segna quindi un passaggio chiave: non verso un nuovo ordine, ma verso una nuova forma di disordine gestito, in cui ogni potere, anche il più regressivo, può essere riabilitato se torna utile. È l’altra faccia del mondo post-ideologico: non esiste più una linea tra ciò che è legittimo e ciò che non lo è, ma solo tra ciò che conviene e ciò che no. Nessuna civiltà da esportare, nessuna idea da difendere: solo spazio da occupare e risorse da gestire.
Sergio Filacchioni