Roma, 19 nov – C’è una retorica più insopportabile di quella “cervellotica” sull’attinenza storica dei film? Non credo, a meno di non essere veramente estimatori delle rievocazioni brancaleonesche che possiamo vedere alle sagre di paese. Le storie non devono essere sempre e per forza “vere” (il cui significato nella dimensione storica meriterebbe una riflessione a parte), ma possono essere romanzate o del tutto inventate. L’importante è mantenere sempre un criterio di verosimiglianza, il quale può portarci a vedere il secondo capitolo del Gladiatore senza troppe preoccupazioni circa woke e roba simile.
Il Gladiatore 2 è il film che uno si aspetta
Il Gladiatore 2 è proprio il film che uno può aspettarsi. Fu Quentin Tarantino, nel 2003, a sottolineare molto ironicamente proprio questo passaggio, quando disse: «Certo, Kill Bill è un film violento. Ma è un film di Tarantino. Non è che uno va a un concerto dei Metallica e chiede a quegli stronzi di abbassare il volume». Parafrasi: nessuno va a vedersi il secondo capitolo del Gladiatore perchè si aspetta di trovare sullo schermo del cinema la trasposizione meticolosa dell'”Arte della Guerra” di Vegezio o gli “Annali” di Tacito. Se qualcuno lo ha fatto, evidentemente non sa cosa si fa al cinema. Diciamo che a grandi linee ciò che vediamo nel primo e secondo capitolo diretto da Ridley Scott rispetta – seppur con alcune licenze – un criterio di verosimiglianza: sì, uno schiavo poteva diventare gladiatore e “guadagnarsi” la libertà; sì, i Romani potevano riempire le arene d’acqua per piazzarci sopra delle navi, si chiamava naumachia; sì, nell’arena potevano esserci le bestie selvagge più disparate, compresi i rinoceronti (più spesso nel Circo Massimo). La cosa più importante però è non tanto che il film ricostruisca fedelmente il mondo antico, cosa che ovviamente non vuole fare, ma che sia coerente al continuum del suo film “fondativo“, quello del 2000. E su questo a parere di chi scrive, il film centra in pieno il risultato di dare una pagina conclusiva agli eventi inaugurati da Massimo Decimo Meridio, con coerenza ed un significato – se volessimo azzardare – molto più denso e profondo. Insomma, nonostante gli squali e le scimmie rabbiose, questo film è ciò che volevamo: una storia violenta, poca morale, tanta etica ed estetica. Se qualcuno ha sempre criticato, sin dal primo film, l’affresco eccessivamente “truculento” con il quale vengono descritte le cose romane e il suo Imperium, qualcuno potrebbe invece ritenerlo un valore: alla patina mondana che film come Megalopolis (2024) di Francis Ford Coppola mette sulla società romana – tutta bagordi e sfilate alla Versace -, preferiamo nettamente quella violenta e “primitiva” che mostra un tratto essenziale del pensiero Romano: la lotta come affermazione della giustizia. E in questo secondo film si ristabilisce ciò che nel primo poteva ritenersi sovversivo: dal Romano che diventa schiavo, oggi abbiamo lo schiavo che torna Romano. Si ritrova anche il valore attribuito all’arena, che se per certi versi risulta esasperato (la politica romana non era conchiusa solo al perimetro del Colosseo), ci coglie quando lo paragona ad un tempio: i Ludi sono sempre stati qualcosa di più di un semplice “gioco” e i romani questo lo sapevano benissimo. Se volessimo trovare alcune differenze, sicuramente si può dire che quest’ultimo film è molto meno romantico del primo, che però – va detto – era figlio di una stagione hollywoodiana molto strana e particolare, forse irripetibile: quella che ha partorito Braveheart (1995), Il Gladiatore (2000), L’Ultimo Samurai (2003) e Troy (2004); nonostante le tante critiche dei sapientoni col fetish dell’attendibilità, quattro dei migliori film epico-storici di tutti i tempi, o almeno della produzione anglo-americana.
Tornare Romani
Il cammino del nuovo Gladiatore, interpretato da un convincente Paul Mescal, è il riflesso di quel che fu Russell Crowe. Se il primo Gladiatore vede svanire la sua romanità un passo alla volta dentro l’arena, salvo redimersi nella vendetta che gli spalanca i cancelli dei Campi Elisi, il secondo parte da uno smarrimento “fuggiasco” – potremmo dire profugo – per riacquisire con il progredire del film la sua gentes, il suo lignaggio ed infine la sua missione. Tanti riferimenti classici: da Epicuro a Virgilio, il film non si tira indietro da una sua lettura filosofica. Non è un caso che la battuta ricorrente di Annone/Lucio Vero Aurelio (Paul Mescal) sia un passaggio dell’Eneide molto evocativo: “Facile è scendere nell’Averno, giorno e notte la porta di Dite è aperta; ma ritornare sui propri passi e uscire alla luce, qui sta lo sforzo e la difficoltà“, (Eneide VI, vv. 126-29). Per lui si prospetta la classica catabasi dell’eroe: un viaggio discendente verso la morte che si concluderà con una risalita e una nuova consapevolezza. Il film è molto convincente anche nella sua struttura: non si ripropone la linearità vendicativa del primo, schiavo vs. imperatore, ma si apre ad un paesaggio più complesso: gli Imperatori in condominio Geta e Caracalla; il misterioso Macrino messo in scena da un ottimo Denzel Washington che propone una sua lettura del “sogno di Roma”, ovvero quello di una città dove i forti devono dominare i deboli; le ambizioni repubblicane mai sopite di Augusta Lucilla sostenuta dal valoroso Generale Acacio (Pedro Pascal), che da oggetto della vendetta di Lucio diventerà occasione di riconciliazione. Non c’è spazio nemmeno a troppa retorica “buonista”: in un momento saliente del rapporto madre/figlio sentiremo dire a Lucilla “Se non l’amore di tua madre, prendi la forza di tuo padre“, nell’atto di ridargli l’anello appartenuto prima al nonno, Marco Aurelio e poi al defunto padre. Mica spicci. Metteteci un paio di bei momenti-discorso, battaglie sanguinolente e legioni in marcia e il blockbuster è servito per un finale che sta a metà tra lo scontato e il giusto tributo al primo film. Tornare Romani quindi è possibile: nonostante gli squali, la corruzione del kali-yuga e i despoti di ogni colore. Perchè i veri figli della Lupa sono sempre stati un manipolo di combattenti con un profondo senso del sacro.
Sergio Filacchioni