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Perché “Il Gladiatore” ha provato a farci disprezzare Roma imperiale (ma non ce ne siamo accorti)

by Stelio Fergola
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Il Gladiatore

Roma, 9 lug – Quando un pezzo si sente caldo va scritto subito, senza pensarci, lasciandosi guidare dal motore inesauribile dell’ispirazione. È ciò che mi appresto a fare. Andiamo dritti al punto: si sta facendo tanto rumore su Il Gladiatore 2, secondo film a tema romano in uscita il prossimo autunno, per i suoi contenuti woke. Nessuno a distanza di oltre vent’anni si è reso conto dei danni infiniti che ha provato a infliggere nell’immaginario collettivo italiano Il Gladiatore, ovvero il primo della serie, sempre diretto da Ridley Scott nel 2000. Senza riuscirci, forse, ma con un tentativo palese ignorato da quasi tutti.

Premessa: da cosa nasce la riflessione

Stamattina su Facebook mi sono scontrato con qualche fan de Il Gladiatore. Particolare curioso, di posizioni politiche – in teoria – opposte. Uno dei due è un antifascista e un anti-italiano marcio e viscido, che non gode se non vomita qualcosa contro questo Paese (in cui continua a vivere, dividendo la sua aria con me) e contro il ventennio. L’altro è invece vicino alle radici di quel tipo di cultura. Da questo breve incipit ricaviamo già il tema: se ad amare un kolossal americano come Il Gladiatore (ovvero un film che ha provato a insegnarci a dirprezzare Roma antica e le nostre radici, dopo spiegheremo perché) allora è evidente come il pensiero dominante riesca, in un modo o nell’altro, quanto meno a portare tutti nella stessa direzione, rigorosamente anti-italiana: magari con sfumature diverse, con risultati diversi (l’anti-italiano marcio sarà ben lieto di accogliere il messaggio, il secondo soggetto, magari, farà più fatica o non ci riuscirà affatto), ma con impostazioni mentali assolutamente simili. A questa premessa ne seguono altre tre, prima delle riflessioni finali.

Non ce ne frega un cazzo della qualità

Il lettore perdoni la parolaccia nel sottotitolo ma “sentire un pezzo” è anche questo e non c’è tempo per fare i raffinati. Quindi lo ripetiamo: della qualità de Il Gladiatore non ce ne frega un cazzo. Non ci vuole certamente un genio o un esperto di cinema per conoscere la qualità delle produzioni dirette da Ridley Scott. Non è il punto su cui ci concentreremo. Aggiunta doverosa: questo articolo è pieno di parolacce, quindi nel caso potete cambiare aria già da questo punto.

Non ce ne frega un cazzo dell’accuratezza storica

Uno dei temi su cui potrebbe battere l’appassionato bagnato de Il Gladiatore è che il film, in fin dei conti, sia un’accurata ricostruzione. Di una storia basata su un romanzo ma tutto sommato accurata. Vero in parte (Massimo diventa schiavo e poi gladiatore, e questo tanto accurato non è, stando alle leggi romane dell’epoca, ma è una minuzia), ma non ci interessa. Per quanto ci riguarda, Il Gladiatore poteva anche essere una reinterpretazione totalmente fantasiosa della storia romana con la presenza – esempio stupido per far capire il punto – di astronavi e razzi che inviavano duemila anni fa alla conquista dello spazio. Ma, per l’appunto, non ci interessa.

Non ce ne frega un cazzo delle “produzioni italiane non all’altezza”

Altro argomento venuto fuori sul tema è: “Eh ma è un film di qualità, in Italia non abbiamo mai prodotto niente di simile”. E stigracazzi, direi. Magari potremmo concentrarci sul perché non lo facciamo, il film sulla storia imperiale, a mobilitarci per farlo, invece di lasciare che gli altri ci insegnino a disprezzare la nostra storia o nella migliore delle ipotesi smitizzarla, no? Comunque, qualcosa di qualità l’abbiamo prodotta anche noi, come Il Primo Re, “stranamente” privo della retorica stucchevole presente nell’opera di Scott. Ma a questo magari dedicheremo un altro pezzo in futuro.

Cosa ci interessa de Il Gladiatore

Sostanzialmente ciò che mi attira in senso critico del film di Scott è la narrazione. Furba nell’usare come protagonista imperiale proprio Commodo, ovvero uno degli imperatori effettivamente più violentemente ridicoli della storia romana, stucchevole nel presentare tutti e dico tutti gli aspetti della società romana imperiale in senso negativo: dall’esistenza degli schiavi, agli stessi gladiatori all’inciviltà dello spettacolo che si teneva nelle arene. Non ci vuole un genio per capire che con gli occhi di oggi tali aspetti siano effettivamente criticabili (per i fessi che inevitabilmente leggeranno questo pezzo: no, nessuno dice che la schiavitù fosse una cosa bella) come non ci vuole un genio per asserie che, per oltre due ore e mezzo, Scott ci abbia fatto oltre vent’anni orsono due coglioni così (parolacce lecite, lo ripeto) sulla bestialità della Roma imperiale senza uno straccio di contestualizzazione o storicizzazione. In sintesi, roba non molto diversa dalla demenza antifascista, con la quale credo vada abbastanza a braccetto. Tutto ciò che c’è di positivo nella storia è relativo solo all’individualità del personaggio, Massimo Decimo Meridio, interpretato da Russell Crowe, in cerca di vendetta ma anche coraggioso, eroico, pieno di buoni sentimenti e rigorosamente ostatolato da tutto un mondo, un universo a cui manca solo che ad un certo punto venga espressamente dedicato l’aggettivo “demoniaco”. Il buono è il protagonista, il mondo che lo circonda è malvagio. Ed è incredibile che in molti non se ne rendano conto dopo oltre due decenni.

Un paragone utile per capire di cosa stiamo parlando: Shogun

Shogun, la serie basata anch’essa su un romanzo ispirato a un fatto storico realmente accaduto nel 1600, ci trasporta nella realtà feudale giapponese. Si dirà, argomenti diversi. Vero. Ciò che ci porta ad accomunare le due opere sono gli intenti. Shogun descrive la società giapponese del tempo, nei suoi aspetti cruenti e meno cruenti, in quelli più luminosi e peggiori, ma con un aspetto fonamentale non giudica. Il Gladiatore, nel 2000, fece l’esatto opposto: giudicava. E pesantemente. Il primo racconta, il secondo sputa sentenze. E non è una differenza da poco.

Il Gladiatore ha provato a insegnarci il disprezzo della storia romana (senza riuscirci)

Diciamo che il film di Scott è riuscito nell’impresa di non far assolutamente capire quanto fosse critico delle nostre radici, per lungo tempo considerate fonte di civiltà assoluta e nelle sue oltre due ore di girato semplificate e demonizzate come un “fascismo qualunque”. Non è riuscito a convincere la maggior parte degli italiani (il popolo ovviamente più sensibile al tema) di una malvagità della Roma imperiale da stigmatizzare proprio come il “fascismo qualunque” di cui sopra. Ma in ogni caso, gettando le basi di mentalità atte a non subire troppo il “mito” della Roma antica, che si sa, è sempre pericoloso.  Dio non voglia che gli italiani del futuro possano riscoprirlo, quel mito, quella leggenda, quell’insegnamento verso l’infinito: potrebbero perfino risvegliarsi, e ciò non va mai bene. Non ho la minima idea se Scott e soci abbiano pensato concretamente a questi concetti (ne dubito fortemente). E neanche mi interessa. So solo che Il Gladiatore è un film di propaganda contrario alle radici culturali dell’antica Roma intesa come culla della civiltà italiana ed europea. E questo basta per farmelo detestare. Della qualità non ce ne frega un cazzo, per ribadire quanto espresso sopra, in una filosofia ben nota ai fan di Boris e del mitico René Ferretti.

Stelio Fergola

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