Milano, 13 gen – Diciamocelo chiaramente: Tre Manifesti a Ebbing, Missouri non è un titolo. Richiede impegno nel pronunciarlo. Rispetto della punteggiatura. È verboso, pedante, lezioso. Qualcuno in radio lo sintetizza con “Tre Manifesti” per far prima. Non abbiamo tempo da dedicare a tutte quelle parole. Ci vuole troppo a pronunciarle. Ancor di più per ascoltarle.
Mentre ci rimettiamo in marcia a testa bassa, accade però qualcosa: Tre Manifesti a Ebbing, Missouri vince quattro Golden Globes (miglior film drammatico, miglior attrice, miglior attore non protagonista e migliore sceneggiatura), ed improvvisamente comincia a circolare sulla bocca di tutti. Qualcuno parla di Oscar, qualcun altro lo incensa: “È il migliore film dell’anno appena iniziato”,“Una dark comedy brillante e tragica”.
Alt. Fermi tutti. Vuoi vedere che forse vale la pena alzare la testa e prestargli un occhio, magari due? Cosa ci sarà mai scritto di tanto interessante sui quei tre cartelloni? Forse a badar bene, quel titolo non è poi così brutto. Anzi, magari contiene in sé una (dolorosa) verità, un messaggio nascosto…qualcosa. Proviamoci allora. Scomponiamolo: Tre. Manifesti. A Ebbing, Missouri.
È nelle sale italiane da questo weekend il nuovo, splendido film di Martin McDonagh.
Tre. Sono le colonne portanti del film e rispondono rispettivamente ai nomi di Mildred (Frances McDormand), dello sceriffo Willoughby (Woody Harrelson) e del suo vice Dixon (uno straordinario Sam Rockwell). Il filo rosso che li unisce è il delitto irrisolto della figlia di Mildred, stuprata e uccisa – non si sa ancora da chi – a Ebbing, Missouri. Un true crime per tre personaggi diversi, non così diversi, accomunati dallo stesso codice postale: il buon (per modo di dire) detective, Il brutto – dannatamente redneck e catarticamente populista – vice-sceriffo e la cattiva, dolce e violenta, pronta a tutto e ma un po’ stronza, Mildred. Tre grandi interpreti per tre grandi personaggi.
Manifesti. I cartelloni come metafora del medium. Il mezzo per generare attenzione ed alzare tensione. Viviamo nel ventunesimo secolo. Un secolo fatto di immagini, schermi e tweet. Molto spesso rincorso, troppo spesso passeggiato, quasi mai affrontato. E allora l’unico modo per catturarlo è quello di porre una semplice domanda. Poche parole. Sei metri per tre. Testo nero su sfondo rosso, sangue.
Ebbing, Missouri. Il sud. Qualcuno, siamo certi, tirerà in mezzo Trump. Pare sia impossibile non farlo. E allora noi diremo che se un merito ha avuto, il presidente pazzo col ciuffo biondo, è stato quello di mostrarci quel sud. Quello dimenticato. Quello bianco, bifolco, volgare e subumano. Quello paludoso, tortuoso e immenso, where the skies are so blue. Quello invisibile agli occhi potenti e a quelli chic. Quello a volte violento, sofferente e cinico, ma in ogni caso sincero. Quello disposto a tutto, anche a lanciarsi tra le fiamme, per mettere in salvo un pezzo di verità.
Tre Manifesti a Ebbing, Missouri è questo. Tutto questo. Qualcuno poi citerà Fargo e i fratelli Coen, ma noi crediamo che Martin McDonagh, al terzo capolavoro su tre opere complessive, sia ormai un regista affermato che non necessiti di paragoni. Capace di osare, lo ha sempre fatto, di rimanere impresso nell’immaginario e di catturare la nostra attenzione. Qualunque sia il modo in cui decida di farlo.
Davide Trovato
Il sud, quello dimenticato e immenso: Tre Manifesti a Ebbing, Missouri
172