Roma, 19 ago – Due parole sulla strage di Vergarolla vanno sempre spese. Il fattaccio avvenne “ieri”, o meglio il 18 agosto 1946, a guerra non finita, ma strafinita. Oggi è il 19, ma cambia poco. Il peso umano di quella vergogna è talmente immane da non permetterci di sottilizzare per un giorno di ritardo. Vergarolla è come le marocchinate, come le foibe, e d’altronde l’area in cui avvenne è drammaticamente la stessa. In un certo senso, c’è anche una somiglianza con Ustica. Mine, bombe, che produssero sangue italiano a fiumi, nella totale indifferenza generale.
Vergarolla, una strage “senza colpevoli”
I colpevoli, per carità, sono in realtà desumibilissimi, anche se non ne abbiamo la certezza: la polizia segreta del maresciallo Tito è la prima indiziata. Una stima di morti che intercorre tra i 65 e il superamento del centinaio che la rende una strage a tutti gli effetti dimenticata. I dirigenti dello Stato confinante, in ogni caso, erano convintissimi che per prendersi ciò che restava dell’Italia istriana in modo definitivo si dovesse fare piazza pulita degli italiani che ancora ci vivevano. Se non uccidendoli, anche convincendoli a fare le valigie. Tanti, in particolare, quelli che ancora vivevano a Pola. E che proprio tra il 1946 e il 1947 sarebbero scappati. Lontani dalle loro case, lontani dalla loro terra, lontani – anche – da possibili future mine che avrebbero potuto produrre altri morti, altro sangue, altra miseria umana.
Come Ustica?
Non proprio, ma un minimo di riflessione quanto meno il fatto di sangue del 1946 dovrebbe suscitarlo. Incredibile come ancora non si sappia con chi prendersela, come non si possa anche solo urlare il proprio dolore di familiari e discendenti in nome di una parola sola: la giustizia. Perché sì, in questo Vergarolla è sul serio come Ustica, al netto delle ovvie differenze (su tutte, il periodo di transizione in cui si trovava la città di Pola in quel momento, volenterosa di rimanere all’Italia ma poi destinata a lidi jugoslavi e infine, da oltre trent’anni ormai, croati). La ricorda nell’incapacità dello Stato italiano dal 1945 in poi di difendere sé stesso e il suo popolo. Perché quando “non si sa” e sono attivi contesti internazionali, non c’è un’altra storia da raccontare.
Alberto Celletti