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Noi spalanchiamo le porte agli africani, ma a casa loro dicono: “Prima i nostri”

by Giorgio Nigra
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immigrazione in SudafricaRoma, 9 mar – “Molti pensano che, dato che siamo in Africa, uno può venire facilmente a vivere qui, lavorare, fare un po’ tutto quello che gli pare senza giustificarsi con nessuno. Non so se è lo spirito colonialista francese che dà questa impressione o se è qualcosa di ancor più globale, ma no, non è così semplice”. A parlare è Elodie Bonnefon, giornalista con un blog sul sito del Courrier International, portale che raccoglie articoli da varie testate del pianeta, un po’ come fa la rivista Internazionale. E poi ci sono i blog, appunto. Elodie scrive dal Sudafrica e, nel suo ultimo articolo, uscito ieri, ci racconta le difficoltà di emigrare nel Paese di Mandela. Bisogna subito rassicurare la corrispondente: no, non abbiamo mai creduto che fosse così semplice. Sappiamo bene, anzi, che la facilità con cui gli africani entrano in Europa non trova alcun corrispettivo quando gli europei vogliono andare in Africa. È peraltro rivelatrice la chiosa sulla “mentalità colonialista”: evidentemente, per la giornalista, guardare uno Stato estero e credere di potervi entrare con facilità per poi “fare un po’ tutto quello che ci pare senza giustificarsi con nessuno” è indice di un approccio coloniale con l’altro da sé.

Peccato che sia la stessa mentalità espressa, nei nostri confronti, dagli immigrati africani. I quali, dobbiamo dedurne, si considerano come nuovi colonizzatori dell’Europa. Ad ogni modo, l’autrice ci spiega, non senza un po’ di disappunto, che “da diversi anni, soprattutto per combattere la forte immigrazione illegale, le regole sono diventate più dure”. Dura la vita dove non ci sono “No Borders” al tuo servizio alla frontiera, vero? Ma vediamo quali difficoltà incontra chi vuole andare a “pagare le pensioni dei sudafricani”. Quando si richiede un visto lavorativo della durata di 5 anni, si devono fornire una serie di documenti (ovviamente tutti nella lingua locale): un certificato che “traduce” il titolo di studio sulla base del sistema scolastico sudafricano, la fedina penale relativa a tutti i Paesi in cui si è abitato, l’atto di nascita. La società per cui si va a lavorare deve a sua volta fornire una serie di documenti, tra cui un documento in cui si spiega perché un sudafricano non può svolgere il lavoro che si intende dare al richiedente del visto.

“Prima i sudafricani”, quindi, lì si può dire. Esiste anche un altro tipo di visto, chiamato “Critical skills work visa”, che non è legato a una azienda in particolare ed è un po’ più facile da ottenere, ma richiede competenze fuori dal comune. Il racconto prosegue con la descrizione delle lungaggini burocratiche infinite con cui lo Stato sudafricano cerca di tenere sotto controllo chi entra, accertandosi anche che, a un certo punto, se ne vada dal Paese. Perché in Africa funziona così. Non siamo mica in Europa.

Giorgio Nigra

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2 comments

andrea 10 Marzo 2017 - 12:28

nessuno parla del diritto alla reciprocità, sancito nei principi di diritto internazionale e quindi accettato dalla maggioranza dei paesi al mondo. Aspetto i Vostri commenti

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ugo 10 Marzo 2017 - 9:32

Non è solo in Africa, è così un po’ ovunque. Ad esclusione che da noi, che siamo i migliori (seeeeee…).

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