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Confine orientale: quelle stragi compiute dai comunisti a guerra finita

by La Redazione
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Confine orientale, libro

Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo un estratto del nuovo libro di Pierluigi Romeo di Colloredo, intitolato “Confine orientale. Italiani e slavi sull’Amarissimo dal Risorgimento all’Esodo”, edito da Eclettica.

Scopo del presente capitolo conclusivo è di contestualizzare i fatti commemorati nel Giorno del Ricordo (ovvero l’uccisione di un numero di civili italiani ascrivibile a 10.000-15.000, anche se si arriva a proporre cifre sino a 23.000, e l’esodo di 350.000 civili dall’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia) nell’ambito delle vittime civili in Balcania dovute alla guerra civile tra le varie componenti politiche e nazionali, all’occupazione da parte di Italia, Germania, Bulgaria ed Ungheria, sino alla repressione sia in periodo bellico che postbellico delle opposizioni da parte dell’Epj prima e del regime comunista jugoslavo poi.

Tale contestualizzazione deve tenere conto di tutti i suddetti fattori e soprattutto non essere limitata nell’analisi al solo confine italo-jugoslavo ma essere estesa a tutto il territorio della Repubblica Popolare Federativa di Jugoslavia, giacché, lungi dal costituire un caso a sé, la repressione della minoranza italiana ha precisi riscontri con altri casi di normalizzazione di minoranze etniche, dai tedeschi, ai bulgari, agli ungheresi sino, particolarmente violenta, agli albanesi del Kosovo, e che ha riguardato anche sloveni, croati e serbi; argomenti che i giustificazionisti tendono a nascondere dietro la storiella delle comprensibili reazioni alla violenza antislava degli italiani durante l’occupazione.

Riguardo alle perdite in vite umane dovute alla guerra, assieme civile – tra partigiani monarchici (cetnici), fascisti croati e sloveni (ustasha e domobrançi) e partigiani comunisti – ed esterna, avvenuta nei territori della ex Jugoslavia tra il 1941 ed il 1945, non esiste una cifra precisa, anche se essa viene valutata abitualmente al di sopra del milione di morti. Dusan Breznik aveva proposto 1.100.000 vittime. Paul Mayers e Arthur Campbell in The population of Yugoslavia, Washington 1954, parlano di 1.067.000 vittime; Bogoljub Kočević invece suggerisce 1.014.000 caduti. L’opera di Vladimir Zerjavic Jugoslavija-manipulacije zrtvama drugog svjetskog rata, Zagreb 1989, calcola un totale di 1.027.000 morti jugoslavi, mentre i morti furono 2. 073.000 secondo Rudolph J. Rummel nel suo Death by Government, e questa è la cifra più attendibile in base alle ultime ricerche. Il regime comunista è da ritenere responsabile di 100.000 vittime dei partigiani sino al 1944, ossia sino alla nascita di un vero e proprio governo regolare comunista, e di altre 1.072.000 vittime sino al 1987.

La cifra minima di oltre un milione di morti, assai elevata in proporzione alla popolazione jugoslava di 18 milioni, e ulteriormente accresciuta dalle stragi compiute dal regime comunista posteriormente al conflitto (non calcolate dallo Zerjavic, che scriveva in piena dittatura), è dovuta principalmente alla guerra civile fra i vari popoli della Jugoslavia. Almeno 600.000 uomini sono stati eliminati dopo il 30 Aprile 1945; si trattava di ustasha, četnici, domobrançi e altri anticomunisti che furono massacrati con le loro famiglie dal nascente regime del Maresciallo Tito. Secondo la Commissione del Senato americano sui crimini di guerra nella Jugoslavia durante la Seconda Guerra Mondiale, i soli serbi uccisi dai croati oscillerebbero in una cifra compresa fra 300.000 e 500.000.

Per dare un’idea del modo di condurre la guerra, bastino pochissime citazioni dall’opera di Oliva, relative ad alcuni episodi bellici: Decine e decine di militari italiani furono ritrovati con le membra spezzate, evirati, con gli occhi enucleati […] Quando le nostre truppe poterono tornare sul luogo della lotta, poterono constatare che i feriti erano stati seviziati: denudati tutti, alcuni evirati, conficcati i fasci del bavero negli occhi, infine tutti sgozzati […] I ribelli si accanirono sui feriti, ai più gravi aprirono il ventre estraendone le viscere, ai più leggeri spaccarono la testa a martellate e poi buttarono i cadaveri in un pozzo profondo venticinque metri.

Al di là quindi degli eccessi e dei crimini di guerra che possano essersi verificati e che si verificarono, il comportamento delle Forze Armate italiane era perfettamente rispondente alle norme del diritto internazionale. Qui non si tratta di fascismo o meno, ma di diritto internazionale e di convenzioni internazionali, delle quali sia il Regno d’Italia che il Regno di Jugoslavia erano firmatari e quindi tenuti ad obbedire.

Gli italiani in Balcania rispettarono quasi sempre – ma non sempre, e nessuno si sogna di negarlo – il diritto internazionale: ciò non impedì loro di essere spesso, molto spesso, più che duri, feroci. E lo furono certamente più di quanto lo siano state le Forze armate del Terzo Reich in Italia dal 1943 al 1945 con 1.087 civili vittime dei tedeschi (cifra dell’accusa al processo di Venezia contro il Feldmaresciallo Albert Kesselring). Ma furono infinitamente meno feroci del loro avversario, sia delle bande partigiane del 1941-1943, dalla ferocia degna del banditismo balcanico contro l’Impero Ottomano, sia dell’Esercito popolare di Liberazione Jugoslavo, dei suoi sistematici saccheggi, della sua pulizia etnica che solo i nostalgici del comunismo in salsa balcanica possono osare ancora giustificare o negare. Gli italiani non seviziarono e non condussero genocidi e pulizie etniche verso gli slavi.

I comunisti dell’autoproclamato Maresciallo Tito invece sì: verso nemici politici, religiosi, etnici, e verso i comunisti ritenuti fedeli a Stalin, deportati a Goli Otok in un crudele contrappasso, loro che avevano lasciato Monfalcone per raggiungere il sogno socialista. Nella propria foia giustificazionista gli autori di estrema sinistra (di chiamarli storici proprio non ce la sentiamo!) fingono di ignorare studi fondamentali come quelli del professor Rudolph J. Rummel, il massimo esperto mondiale di genocidi da parte del potere organizzato, autore di studi importantissimi sull’argomento e creatore della definizione di democide per indicare l’assassinio di qualunque persona o genti da parte di un Governo, tra cui il genocidio, l’omicidio politico e di massa.

Una prova concreta dell’approvazione di Tito al democidio viene dalla sua breve occupazione di Trieste, al di là del confine italiano. Avendo occupato illegalmente la città, Tito cedette al tintinnio di sciabole britannico e si ritirò dopo 40 giorni. Durante questo breve periodo, i comunisti arrestarono molte migliaia di persone e ne uccisero probabilmente da 10.000 a 15.000 a Trieste e nelle provincie vicine (Gorizia, Istria e Fiume). Fatti che smantellano le tesi negazioniste o giustificazioniste filojugoslave che attribuiscono quelli che per loro sono al massimo trecento (!) morti infoibati alla giusta reazione alle presunte violenze italiane e fasciste; senza però spiegare cosa c’entrino le altre vittime non italiane. Nei dieci mesi intercorsi fra l’insediamento ufficiale del Governo di Tito riconosciuto dagli alleati (1944) e la fine della guerra, probabilmente Tito uccise, in tutto, da 300.000 a 750.000 croati, sloveni e serbi. Ma questo fu solo una parte del democidio compiuto dal regime comunista nel dopoguerra.

La cifra totale dei morti causati dalla guerra e dalla dittatura comunista in Jugoslavia, secondo le ricerche di Rummel raggiunge una cifra di 2.130.000, di cui, come detto, 1.172.000 vittime del regime tra il 1941 ed il 1987. In queste cifre il numero di morti italiani diventa marginale (da 10.000 a 23.000 a secondo delle stime), smontando quindi le tesi di una reazione alle violenze italiane. Si pensi che nella sola Slovenia il Governo sloveno ritiene certa la presenza di almeno 600 sepolture di massa, con almeno centomila vittime tra sloveni, italiani, allogeni tedeschi, ungheresi e croati, in massima parte civili, assassinati dai comunisti di Tito, conferendo alla Slovenia il triste primato di esser considerata the biggest post-WWII killing site in Europe.

I crimini commessi da Tito e dal suo regime sono dunque senza alcuna relazione con le violenze delle truppe di occupazione italiane, ma il frutto di un disegno ben preciso di eliminazione di avversari in primis politici fossero o no ostili militarmente, una mattanza continuata sino alla morte del dittatore, e di cui le vittime italiane furono un aspetto marginale rispetto alle violenze inflitte alle popolazioni slave, croati, serbi, sloveni, montenegrini, alle elites culturali, ai borghesi, ai comunisti cominformisti dopo il 1948, ai cattolici ed agli ortodossi, repressioni condotte con l’alibi della punizione dei delitti fascisti, del collaborazionismo o della repressione dello spionaggio a favore di Stalin, il cui ruolo decisivo nella conquista di Belgrado e nella sconfitta dei tedeschi in Jugoslavia è stato ed è volutamente dimenticato dal regime di Tito e dalle sue scimmiette rosse di oggi.

Pierluigi Romeo di Colloredo

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