Roma, 13 mag – Nell’esaminare in profondità un fenomeno rivoluzionario, spesso ci si va a scontrare un duplice volto di tale fenomeno. Le rivoluzioni infatti, salvo rarissime eccezioni, presentano nella propria impostazione ideale e programmatica, questa natura da Giano bifronte: si combatte per cambiare il mondo oppure per restaurare un paradiso perduto? La rivoluzione è completamento di sommovimenti e pulsioni già manifestatesi in precedenza oppure è una frattura totale con tutto ciò che c’era prima?
Una realtà storica profonda
Questo doppio volto del fenomeno rivoluzionario è già insito nella sua origine etimologica: la parola deriva dal latino revolutio, che vuol dire “ritorno”. A sua volta però revolutio deriva dal verbo revolvere, che può essere tradotto, tra le altre cose, come “rovesciare” più che come “ritornare”. L’origine del termine rivoluzione però non è soltanto un tema per filologi, è qualcosa che ci mostra una realtà storica profonda. Quasi tutte le rivoluzioni hanno la sensazione sia di star creando qualcosa di nuovo sia di star riportando in vigore un antico ordine morale che è stato corrotto dall’avanzare dei tempi. Prendiamo alcuni esempi che mostrano chiaramente questa ambivalenza del termine rivoluzione.
Il primo esempio di tale fenomeno è la prima Rivoluzione inglese (1642-1649). Essa scoppiò in un paese in cui il re Carlo I pretendeva di diventare un monarca assoluto, governando senza convocare il Parlamento e reprimendo il dissenso religioso puritano. Se si analizzano a fondo le ragioni dei parlamentaristi puritani, si scopre che, almeno all’inizio, l’idea fissa nella loro testa era quella di “ritornare ai bei vecchi tempi”, ovvero il ritorno ad un epoca in cui la monarchia non pretendeva di governare senza il consenso del parlamento, unitamente ad un sentimento religioso, a tratti millenaristico, che invocava il ritorno ad una sorta di paradiso perduto: una perfetta fede che, per i puritani, era andata corrompendosi con i tentativi di governo assoluto di Carlo I e del suo primo ministro, l’Arcivescovo di Canterbury William Laud.
Dalla rivoluzione inglese a quella americana
Nonostante all’inizio fosse questa l’idea di fondo che mosse i rivoluzionari inglesi, questi si resero conto ben presto che, sul piano politico, tale ritorno non era possibile, almeno non nell’immediato. Iniziarono quindi a diffondersi sentimenti repubblicani che si realizzarono con l’esecuzione del re la proclamazione del Commonwealth of England. Ma insieme a questo slittamento della rivoluzione verso un’idea di rinnovamento sul piano politico, continuava a permanere l’idea di ritorno sul piano religioso: una Repubblica dei Santi che, secondo i puritani, ritorna alle origini del messaggio biblico.
La Rivoluzione americana del secolo successivo non andò in maniera dissimile: in origine, i coloni pensavano ad un ritorno ad una giustizia passata. La protesta delle Tredici Colonie scoppiò per chiedere che venisse rispettata la costituzione inglese, non per chiedere aprioristicamente la rottura con la madrepatria: lamentavano anzitutto il fatto che la Gran Bretagna imponeva loro delle tasse senza però concedere loro dei rappresentanti nel Parlamento di Londra (ricordiamo che i malumori esplosero al grido di “Niente tasse senza rappresentanza”). Anche loro volevano tornare ad un’“epoca della virtù” degenerata a causa della politica britannica. Dai radicalirepubblicani inglesi, gli abitanti delle Tredici Colonie avevano infatti ereditato la contrapposizione tra court e country: la prima – la Corte – simbolo della corruzione dei costumi e della virtù contro il secondo – il Paese – fondato sul rispetto delle consuetudini, su una religiosità rigorosa (a tratti fanatica) e sulla virtù.
Ma di fronte al netto rifiuto della Gran Bretagna di ottemperare alle richieste dei coloni, la protesta si radicalizzò in senso indipendentista e repubblicano, passando dall’idea di ritorno all’idea di rifondazione. In entrambi i casi si può notare come si passa rapidamente dal ritorno allo sconvolgimento radicale dell’ordine costituito.
“Noi segniamo l’inizio di una nuova era”
Quest’idea inizia ad entrare in crisi con la Rivoluzione francese. Certo, anche qui in origine la protesta partì dalla semplice richiesta al re Luigi XVI di tornare a governare con l’ausilio degli Stati Generali, che non venivano più convocati da ben 174 anni. Però, dopo la breve fase in cui a prevalere era l’idea di ritorno e in cui le voci più radicali erano in minoranza, il precipitare degli eventi fece sì che nell’arco di quattro anni si giunse all’esecuzione per alto tradimento del re e alla proclamazione della Repubblica. Un ulteriore segnale di questo slittamento verso l’idea di cesura col passato fu l’istituzione del Calendario rivoluzionario e del conteggio degli anni a partire dalla proclamazione della Repubblica, per dire esplicitamente “noi segniamo l’inizio di una nuova era”. Cosa non dissimile da quanto fatto dal Fascismo con il conteggio degli anni secondo l’Era Fascista, a partire dal 28 ottobre 1922.
Come si può notare, la fase in cui prevale l’idea del ritorno dura sempre meno, prima di lasciar posto alla parte più radicale: ma continua a permanere. Forse, le uniche rivoluzioni in cui non se ne trova la minima traccia sono quelle marxiste, che per loro natura non possono predicare un ritorno. E quando hanno provato a farlo hanno sempre dovuto pescare in un passato a loro ostile: ed ecco quindi che nell’URSS staliniana si rivalutarono figure del passato zarista, come Ivan il Terribile.
E la Rivoluzione fascista?
Il Fascismo invece come si pose in questi due poli? Anche nella Rivoluzione fascista ondeggiò tra queste due concezioni della parola “rivoluzione”. Ma con un’accezione diversa da quella che potevano avere i puritani inglesi o i rivoluzionari americani. Nel Fascismo lo scontro diventa tra rottura radicale e completamento. Come giustamente notato da Rodolfo Sideri nel suo Fascisti prima di Mussolini, la polemica era tra coloro che consideravano il Fascismo come completamento di fenomeni precedenti e coloro che lo interpretavano come una rottura netta col passato.
La prima interpretazione, formulata da Giovanni Gentile e fatta propria anche da Giuseppe Bottai, vede nel Fascismo una violenta riattivazione del moto ideale del Risorgimento. La seconda invece, formulata da Carlo Costamagna in polemica con Gentile, ritiene la Rivoluzione Fascista una frattura senza precedenti nella storia nazionale. Anzi, Costamagna teorizza la necessità per il regime di comprendere a pieno la portata rivoluzionaria della propria azione politica, al fine di attuare una piena fascistizzazione della società, della cultura e del diritto.
Una nuova sintesi: far coesistere i due poli
Insomma, come si è visto, i “due poli” sono un problema non da poco se si vuol comprendere la natura di un movimento rivoluzionario. Una possibile chiave di lettura per provare a risolvere questa frattura, senza pretendere per questo di avere una soluzione univoca, è di far coesistere i due poli della Rivoluzione, riformulando come segue il concetto di Tradizione. Essa, per essere qualcosa di ancora vivo e pulsante, va pensata come ciò che comprende in sé tutto quello che ci ha preceduto ed al contempo lo supera, creando una nuova sintesi rivoluzionaria: riprendendo il latino da cui siamo partiti, la parola Tradizione deriva da traditio, che a sua volta viene dal verbo tradere, ovvero “trasmettere”, “consegnare”.
Se quindi il significato più profondo di Tradizione è quello di passare un’eredità, allora possiamo dire che noi racchiudiamo in noi stessi tutto ciò che ci ha preceduto e al contempo siamo qualcosa di diverso da esso.
Si può dire che il Fascismo è l’eredità della Grecia, è la forza di Roma, è la civiltà cortese medievale, è la civiltà comunale, è il Rinascimento, è l’epopea rivoluzionaria e napoleonica, è il Risorgimento ed è l’eredità della Grande Guerra. E racchiudendo in sé tutto questo, lo supera. Perché esso è un Tutto che è più della somma delle sue parti, dunque è differente anche da queste.
Riformulando in tal senso l’idea di Tradizione, le due polarità del fenomeno rivoluzionario sono così armonizzate. Altrimenti la parola Tradizione, se cessa di avere quel valore di trasmissione, rischia di tramutarsi in un mero feticcio di nostalgia per una visione romanzata di epoche mai vissute, smettendo così di essere custodia del fuoco per diventare solo culto delle ceneri. Solo rivitalizzando tale concetto si possono armonizzare le due polarità rivoluzionarie.
Enrico Colonna