Roma, 19 giu – Dopo un iniziale momento di disorientamento a seguito degli attacchi israeliani nella notte tra giovedì 12 e venerdì 13 giugno scorsi, le Forze Armate della Repubblica Islamica dell’Iran hanno dato il via alla controffensiva su tutti i piani: da quello del controspionaggio a quello missilistico, da quello delle difese antiaeree a quello della mobilitazione ideologica.
La risposta dell’Iran agli attacchi israeliani
Partiamo da un assunto fondamentale: Israele sa benissimo che questa guerra non la può vincere da solo. I numeri parlano chiaro. L’Iran è grande qualcosa come settantacinque volte Israele, vanta oltre 92 milioni di abitanti contro i circa 9 milioni di Israele (a cui però vanno sottratti circa 2 milioni di arabo-israeliani, ai quali Israele non darebbe in mano neanche una fionda) e, sempre dal punto di vista strettamente numerico, l’arsenale iraniano è pari o superiore a quello israeliano in tutti i campi: Israele può contare su 126.000 soldati e 400.000 riservisti, mentre Teheran schiera 570.000 effettivi e 350.000 riservisti (tra esercito regolare, Guardie della Rivoluzione e forze di polizia territoriali); sul versante delle unità meccanizzate e corazzate l’Iran dispone di una forza che varia tra le 3.000 e le 10.000 unità, contro le circa 2.600 unità a disposizione di Tel Aviv.
Ovviamente, come sappiamo, Israele e Iran non confinano: quindi la prospettiva di una guerra che coinvolga anche forze terrestri per il momento è da escludere. A meno che la Siria (ora in mano ai tagliagole filo-turchi di Al-Jolani) e l’Iraq non lascino passare anche le forze terrestri israeliane, dopo aver garantito all’entità sionista il passaggio nei rispettivi spazi aerei.
Questa è infatti una guerra che si gioca molto sulle asimmetrie: se a livello strettamente numerico l’Iran surclassa Israele su tutti i fronti (eccetto le armi nucleari, per ora), lo stesso non si può dire a livello qualitativo. Da questo punto di vista c’è poco da fare: Israele ha dalla propria parte i più avanzati sistemi d’arma di importazione americana, soprattutto caccia di quarta e quinta generazione (in particolare gli F-35).
Una guerra asimmetrica
Tuttavia, questa asimmetria non è necessariamente uno svantaggio totale per Teheran: la Repubblica Islamica dispone di oltre tremila missili (da crociera, balistici e, stando alle poche notizie in merito, anche ipersonici) e un arsenale di droni kamikaze di difficile stima numerica.
E la combinazione di questi due fattori si è rivelata decisiva per la buona riuscita dei contrattacchi iraniani: i droni “civetta” – spesso neanche muniti di esplosivo – “attirano l’attenzione” del sistema Iron Dome, i cui missili di conseguenza tornano al mittente perché non riescono ad agganciare il bersaglio, e successivamente arrivano i missili veri e propri (i più rapidi riescono a coprire la distanza tra Teheran e Tel Aviv in meno di 15 minuti) che passano senza troppi problemi. Questa strategia, definita di “saturazione delle difese”, ha causato danni devastanti in diverse città israeliane (Haifa e Tel Aviv soprattutto). Inoltre, il già poco efficiente – come si è visto – sistema di difesa Iron Dome sta rapidamente esaurendo le scorte di missili Tamir necessari al suo funzionamento.
Anche per quanto riguarda la difesa contro gli attacchi aerei di Israele, l’Iran sta pian piano prendendo le contromisure: di fatto, l’Iran è il primo paese al mondo ad aver abbattuto dei caccia di ultima generazione (ben quattro F-35 di fabbricazione statunitense).
Insomma, come dicevamo all’inizio, Israele è ben consapevole del fatto che le probabilità di vincere da soli questa guerra sono molto poche. E infatti, neanche cinque giorni dopo l’inizio delle ostilità, il presidente degli Stati Uniti parla già di intervenire a sostegno del regime sionista. Strano per una “potenza che avrebbe spazzato via l’Iran in una settimana” aver bisogno del fratello maggiore già dopo cinque giorni di raid aerei, no?
Il portato ideologico-politico
Sul fronte interno – come già evidenziato da queste colonne appena due giorni fa – la Repubblica Islamica sta reagendo rapidamente, soprattutto sul piano del controspionaggio, sventando pezzo dopo pezzo la rete messa in piedi dal Mossad sul suolo iraniano, che ha reso possibile il successo dei primi attacchi.
Ma quello che veramente colpisce è il versante ideologico; questa è la vera arma in più dell’Iran. E lo ammettono gli stessi israeliani.
Questa guerra, oltre agli scopi più “pragmatici” – come il tentativo di bloccare la ricerca nucleare iraniana – ha avuto una carica ideologico-politica sin dai primissimi momenti. A partire dal nome stesso dell’operazione con cui il regime sionista ha dato il via all’offensiva:Operazione Rising Lion, Leone Rampante. Dove il “leone” è certamente il “Leone di Giuda”, ma è anche l’emblema storico della dinastia imperiale dei Pahlavi, cacciata dall’Iran dopo la Rivoluzione khomeinista del 1979.
E il sogno proibito di Israele ora è questo: abbattere la Repubblica Islamica e restaurare il regime filo-occidentale e sanguinario dello Scià, un regime di certo più accondiscendente all’agenda politica sionista. Questa non è una novità degli ultimi giorni: già ad aprile 2023 – prima dell’inizio del genocidio a Gaza – il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva accolto in visita ufficiale il pretendente al trono di Persia Reza Pahlavi, figlio dello Scià fuggiasco Mohammed Reza Pahlavi, come “legittimo rappresentante del popolo iraniano”, scatenando l’ira della maggioranza della popolazione iraniana.
Guai a sottovalutare l’Iran
Quindi, quella del regime sionista contro la Repubblica Islamica in questo caso è anche una guerra politica – del resto già Clausewitz diceva che “la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi”. Ma anche sul versante politico-ideologico Israele sa bene che l’Iran ha un arsenale di gran lunga più letale.
Se ne è accorto anche l’analista israeliano, esperto di sicurezza e corrispondente di Haaretz, Yossi Melman all’indomani dell’inizio dell’offensiva sionista: “L’euforia è durata poco. Venerdì mattina mi chiedevo: era davvero necessario entrare in questa guerra, soprattutto contro gli iraniani? Gli sciiti sono storicamente preparati a sopportare la sofferenza. Ho ricordato come hanno dimostrato la loro resistenza durante gli otto anni di guerra con l’Iraq. Il mio consiglio: minimizzate le perdite e fate appello a Trump affinché ponga fine a questa follia con un accordo ragionevole. Altrimenti, ci ritroveremo ad implorare un cessate il fuoco che l’Iran potrebbe persino non accettare”.
La classe dirigente israeliana – sia in ambito civile che militare – è infatti ben conscia dell’importanza della nozione di “martirio” nel lessico politico iraniano e più in generale sciita: non dimentichiamo che l’Islam sciita dà ampio spazio alla venerazione dei martiri e al culto degli eroi (è qualcosa di vagamente simile al culto dei Santi in ambito cristiano, tra mille virgolette); un esempio su tutti è la venerazione di cui gode da ormai cinque anni il defunto generale dei Pasdaran Qassem Soleimani, ucciso nel 2020 da un drone americano su ordine di Trump.
Israele ha già mancato i suoi obiettivi?
Insomma, i futuri sviluppi di questa guerra sono difficilmente pronosticabili, come si è potuto veder in questi primi cinque giorni. Una cosa però al momento è chiaro: il totale fallimento – per ora – di Israele nei suoi intenti.
L’entità sionista aveva quattro scopi: fermare la ricerca nucleare iraniana, paralizzare il sistema missilistico di Teheran, bloccare la catena di comando e avviare rivolte politiche che facessero cadere la Repubblica Islamica.
Nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto. L’Iran è un paese in questo momento isolato e sotto attacco, ma compatto e determinato a vendere cara la pelle per ostacolare il progetto israeliano – supportato dalle monarchie del Golfo – di ridisegnare l’assetto del Medio Oriente.
Enrico Colonna