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Giovanni Gentile pensatore della Nazione

by La Redazione
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Roma, 29 apr – Chi armò la mano dei sicari o del sicario di Giovanni Gentile il 15 aprile 1944, a Firenze? Probabilmente non finiremo mai di chiedercelo, neppure oggi a cento cinquant’anni dalla sua nascita e a ottanta dalla tragica morte. Di tanto in tanto vengono fuori studi che aggiungono dubbi a certezze acquisite o ritenute tali. Ma, al di là del fatto, che l’assassinio fu ispirato da ambienti che gravitavano nell’orbita del Pci, tanto che Palmiro Togliatti vi appose il suo autorevole sigillo dopo aver definito il filosofo come un essere immondo, restano ancora oscuri i contorni del complotto.

Perché di un complotto si trattò, stando a quel che scrive al riguardo Luciano Mecacci, autorevole psicologo dell’università di Firenze, imbattutosi quasi per caso nel complicato affaire dell’omicidio di Gentile, nel suo libro “La ghirlanda fiorentina”, in uscita per Adelphi. E del complotto facevano parte, direttamente o indirettamente – ma questa è storia parzialmente nota – giovani intellettuali. Molti dei quali già vicini a Gentile e a lui “riconoscenti”, poi votatisi alla causa del comunismo.

La “demonizzazione”

Che l’azione sia stata concertata o meno da importanti accademici, che avevano fatto carriera all’ombra del fascismo, nessuno è in grado di poterlo sostenere con la sicurezza. Essa può derivare soltanto da documenti e confessioni. Ma i nomi che si colgono nelle pagine di Mecacci, non sorprendono considerando che, in maniere e forme diverse, più o meno tutti contribuirono tra il 1943 ed i primi mesi del 1944 a “demonizzare” Gentile. E oggettivamente proporlo come bersaglio a fanatici gappisti quale Bruno Fanciullacci che materialmente esplose i colpi che uccisero il filosofo mentre rientrava in automobile nella sua dimora fiorentina.

Antonio Banfi  ed Eugenio Curiel, Mario Manlio Rossi e Carlo Ludovico Ragghianti, Eugenio Garin, Cesare Luporini e soprattutto Concetto Marchesi (sulla cui azione di rivoluzionario ed accademico, accusatore di Gentile ed istigatore all’odio si veda il libro di Luciano Canfora, “La sentenza”, pubblicato da Sellerio nel 1985, dal quale si ricavano utili informazioni sul clima in cui maturò l’assassinio) s’incanaglirono nel mettere sotto tiro il filosofo per il semplice fatto, ormai acclarato, che egli si batteva per la pacificazione. Ai comunisti non andava bene per niente. E simmetricamente in alcuni ambienti della Repubblica Sociale la prospettiva veniva respinta sdegnosamente. Tanto da far scrivere articoli contro Gentile per esempio da giornali solitamente non proprio estremisti, come “La Stampa” di Torino.

Giovanni Gentile e la via d’uscita dalla guerra civile

Immaginando una via d’uscita dalla guerra civile, Gentile intendeva proporre un piano a Mussolini dal quale sarebbe stato ricevuto il 18 di quello stesso tragico mese. La morte mise fine a qualsiasi progetto. Mecacci adombra l’ipotesi che perfino servizi segreti stranieri, insieme ad ambienti massonici, si adoperarono affinché il disegno gentiliano si arenasse. Insomma, non stava bene a nessuno la concordia. A cominciare dai comunisti che avevano arruolato intellettuali desiderosi di redimersi ed immaginavano di lucrare sulla vittoria, ai governi alleati contro il fascismo che dovevano portare a compimento la loro “opera di bonifica”, a quanti intendevano regolare conti in sospeso.

Gli uomini di pensiero, comunque, irreggimentati ebbero il ruolo dei fomentatori, e non lo assevera soltanto il libro di Mecacci. La strategia togliattiana era chiara: uccidere le idee per prendersi l’anima del popolo. Lezione appresa da Stalin e dalle lunghe frequentazioni del Komintern. Ci provò anche con Benedetto Croce, il “Migliore”, ma l’amico-nemico di Gentile era “protetto” dagli eventi e dalla parte che aveva scelto. La circostanza non lo sottrasse comunque all’emarginazione ed alla solitudine intellettuale. Curioso destino: i due più grandi filosofi del Novecento sconfitti dall’Intellettuale Organico, dal Pensiero Unico di marca comunista vilmente servito da azionisti e liberali pentiti, socialisti e cattolici progressisti.

Il filosofo della Nazione

Gentile, dunque, ottanta anni fa fu vittima non della sua coerenza politica, ma della sua morale patriottica. Un “vinto” che insieme con l’onore voleva salvare quel che era salvabile dell’Italia, in adesione a quanto scritto e detto per decenni  ripubblicato in un’antologia gentiliana curata da Marcello Veneziani, “Pensare l’Italia”, edita da Le Lettere. A conclusione del suo saggio introduttivo di scintillante bellezza, Veneziani scrive: “Gentile fu il filosofo della nazione. Non si limitò ad amare l’Italia. Giovanni Gentile fu l’ultimo grande filosofo a pensare l’Italia”.  È il riassunto del ruolo civile, intellettuale e politico dell’uomo che cadde sotto i colpi di un terrorista comunista al quale con gratitudine per l’atto compiuto, venne poi intitolata una strada di Firenze, mentre alla vittima innocente ancora viene ostinatamente negato un ricordo toponomastico nella stessa città.

Gentile è, dunque, il “vinto” per eccellenza. Ma, da quel che emerge, oggi lo si  riconosce come un “pacificatore”, ancorché uomo di parte, capace non solo di amare, ma di “pensare” appunto l’Italia, ben più difficile esercizio quando si è nello stesso tempo filosofo, educatore, statista. Non bastava a gente come Gentile lavorare per la riconciliazione se questa era un puro espediente retorico per tenere insieme anche ciò che insieme non poteva stare. Lui voleva – e lo dimostrò fino alla fine – porre a fondamento della sua azione culturale e politica la missione di dare agli italiani la consapevolezza della loro identità. Ecco il motivo per il quale “pensare” la Nazione per lui significava ricomporre la trama di una storia senza gettare via nulla in modo che tutti si potessero in essa riconoscere. Gli assassini delle idee lo avevano capito.

Che cosa rimane?

Di Giovanni Gentile, dunque, cosa rimane al di là del lascito più importante, vale a dire lo straordinario messaggio di pacificazione volta a ricomporre l’unità e l’ identità della nazione italiana? Rimane molto. A cominciare dalla costruzione di una tradizione  filosofica italiana con la quale intendeva conciliare l’eredità più pregnante del suo pensiero, cioè a dire il Risorgimento laico mutuato da Bertrando Spaventa con quello cattolico di Antonio Rosmini e di Vincenzo Gioberti. Il superamento delle “due Italie” fu il tentativo culturale a cui Gentile dedicò le sue maggiori cure e dal quale discendevano le grandi costruzioni culturali, accademiche, politiche cui si dedicò con un’intelligenza ed una passione straordinarie. Unitamente ad un’opera teorica imponente il cui ultimo capitolo è Genesi e struttura della società che vide la luce postuma.

Il superamento delle “due Italie”

Il superamento delle “due Italie”, secondo Gentile, doveva e poteva avvenire senza traumi, superata la prova “fatale” della Prima guerra mondiale. In tale prospettiva, la cultura doveva precedere la politica insieme con la conquistata consapevolezza da parte delle classi dirigenti che l’Italia risorgimentale si dovesse necessariamente unire all’Italia profondamente cattolica: un disegno che trovò la realizzazione nel pragmatismo lungimirante di Benito Mussolini l’artefice che lo concretizzò riconciliando lo Stato con la Chiesa l’11 febbraio 1929.

Gentile era anche convinto che senza una filosofia nazionale non vi sarebbe stata una Nazione unita e dopo la morte di Giordano Bruno non esistendo più una tendenza del genere, lui – non da filosofo del regime, ma da pensatore libero – si impegnò nelle ripresa del del pensiero di Giambattista Vico, grande conservatore lo definiremmo oggi, attraverso il quale si poteva procedere alla ricomposizione della trama del pensiero rilanciando anche la tesi di Spaventa secondo il quale la filosofia moderna era nata in Italia con Rinascimento per poi svilupparsi in  Germania, un curioso legame tra i due Paesi.

Nonostante tutto, Giovanni Gentile ritorna

Al di fuori di questo schema, si può desumere che Gentile vedesse soltanto il baratro della decadenza nazionale il cui inizio – per quanto l’Italia non fosse ancora formalmente una nazione costituita – faceva risalire al fine del Quattrocento, coincidente con la discesa in Italia di Carlo VIII e la sconfitta della Lega italiana a Fornovo sul Taro.

Se gli italiani, sosteneva Gentile, fossero stati capaci di trovare L’Unità di fronte alla necessità ed al pericolo, se i principi italiani invece di combattersi avessero riconosciuto nel principio unificante della nazione italiana che erano la cultura, il sentire comune, le radici e le origini – come diceva Gioacchino Volpe – probabilmente la Penisola non sarebbe divenuta una “espressione geografica”, ma avrebbe avuto un altro destino. Il tempo della ricostruzione, comunque, era arrivato e la “rivolta ideale” di Alfredo Oriani ricordava che era dal sentimento comune, incistato in quella che sarebbe poi stata l’ideologia italiana, poteva fornire le basi per una riconquista morale su cui la filosofia gentiliana avrebbe posto le basi per la costruzione di una dinamica politica che avrebbe portato allo Stato nuovo.

Purtroppo, sappiamo com’è andata. Ma, nonostante tutto, Giovanni Gentile ritorna. E non c’è più risentimento che ne offuschi la memoria, nonostante  i tentativi grotteschi più che infami di demonizzarlo come accadde qualche anno fa anche in quella che era stata per lui l’Università più cara, La Sapienza di Pisa con annessa Scuola Normale, rifiutandogli un innocente segno di omaggio. Per il resto non c’è che da leggere e meditare la sua opera onde cogliere in essa i valori dello spirito che sostanziano la vita civile e l’azione politica.

Gennaro Malgieri

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