Roma, 2 set – “Cresce il Pil, crescono gli occupati, meno disoccupazione. Le riforme servono”, così il presidente del consiglio e segretario del Pd Matteo Renzi nell’inevitabile tweet auto-elogiativo dopo il rilascio degli ultimi dati Istat su prodotto interno lordo (Pil) e occupazione.
In effetti, l’Istat ha rivisto al rialzo il Pil nel secondo trimestre, portandolo a +0,3% (da +0,2%) rispetto al primo trimestre e a +0,7% su base annua (da +0,5%), mentre nel primo trimestre del 2015 il Pil italiano era cresciuto dello 0,4%, risultando quindi positivo per due trimestri consecutivi, come non accadeva dall’inizio del 2011. Sebbene le percentuali siano ancora da prefisso telefonico.
Alla domanda se questi aumenti siano reali possiamo rispondere affermativamente: i consumi energetici, sia di elettricità sia di carburanti, sono effettivamente cresciuti sia pure leggermente.
È cresciuta marginalmente anche l’occupazione, fenomeno per il quale il governo attribuisce il merito alle proprie misure e in particolare al Jobs Act, ma che – guardando bene i dati – è ascrivibile, almeno per i contratti a tempo indeterminato (oltre centomila in più rispetto all’anno scorso), ai lavoratori “anziani” over 50, per i quali si fanno ancora sentire gli effetti della riforma Fornero che ha determinato un allungamento dell’età pensionabile.
In ogni caso, a raffreddare le esuberanze verbali del primo ministro ci ha pensato il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, secondo il quale, lapidariamente: “Non basta e non è merito dell’Italia” e, più in dettaglio: “La crescita del Pil dello 0,3% non basta, anche perché non è merito nostro ma è dovuto solo al dimezzamento del prezzo del petrolio, al rafforzamento del dollaro e al Qe”, aggiungendo che “Noi non abbiamo fatto le pulizie interne, bisogna fare le riforme, solo in questo modo possiamo far ripartire il Paese”.
Partendo dalla fine, cioè da Squinzi, non è per niente chiaro a quali “riforme” si riferisca il leader degli industriali, e scommettiamo che non si tratta dell’aumento delle retribuzioni, la cui stagnazione o regressione costituisce – come abbiamo ampiamente illustrato – un problema centrale della mancata crescita economica e la cui inversione richiederebbe una drastica detassazione del costo del lavoro, a sua volta impedita dal peso gigantesco di un debito che si avvia a raggiungere il 140% del Pil.
È però la prima parte dell’intervento di Giorgio Squinzi che merita uno specifico approfondimento. Egli sostiene che la recente crescita del Pil italiano sarebbe stata determinata esclusivamente da fattori esterni, quale prezzo del petrolio, che consente un alleggerimento della bolletta energetica a carico dei settori produttivi, indebolimento dell’euro rispetto al dollaro americano, che favorisce le esportazioni, e “Qe”, cioè alleggerimento quantitativo o, in termini più concreti, le enormi iniezioni di liquidità nel sistema economico da parte della Banca centrale europea, che dal marzo di quest’anno procede al ritmo di 60 miliardi di euro al mese per un totale di mille miliardi di euro cumulati tra quest’anno e il prossimo, impiegati per acquistare titoli di Stato anche di basso o bassissimo rendimento dell’eurozona.
Nei grafici a fianco abbiamo ricostruito la serie trimestrale del Pil italiano dall’inizio del 2005, sovrapposta alle serie mensili del prezzo del petrolio di riferimento europeo “Brent”, e al rapporto di scambio tra euro e dollaro.
La realtà emerge prepotentemente come uno schiaffo su Renzi e il suo governo:
- Nonostante il modestissimo aumento del Pil negli ultimi due trimestri, questo continua a navigare su livelli molto bassi rispetto ai massimi precedenti alla prima crisi del 2008-2009, ma anche rispetto alla mini-ripresa del 2010-2011.
- Fatta eccezione per una breve periodo a inizio 2009, il prezzo del petrolio è il più basso nel periodo considerato ormai dall’inizio dell’anno, e l’effetto sul Pil nei primi due trimestri è stato praticamente insignificante, tanto più in rapporto all’analisi storica delle relazioni tra le due serie.
- Fin dall’inizio del 2015, il rapporto tra euro e dollaro è stato il più basso degli ultimi 11 anni, così che – dato che i prezzi del petrolio in caduta libera hanno cancellato gli effetti negativi sulle relative importazioni – le esportazioni avrebbero dovuto letteralmente schizzare verso l’alto, contribuendo in modo determinante alla crescita del Pil. Niente di tutto ciò pare essere accaduto.
- Il “bazooka” di Mario Draghi, ossia l’immissione degli ingentissimi capitali nel sistema finanziario, datano all’inizio di marzo 2015, ma altre economie europee avevano iniziato a scontarli fin dall’inizio dell’anno, recuperando investimenti produttivi e sostegno alla produzione e, di nuovo, alle esportazioni. Di tutto questo non v’è traccia nell’andamento del Pil italiano.
In altre parole, la concatenazione simultanea di tre eventi unici e difficilmente ripetibili – la caduta del prezzo del petrolio, la caduta dell’euro rispetto al dollaro e lo sforzo straordinario di liquidità della Bce, si sono risolti in un tasso di crescita nemmeno lontanamente paragonabile a quello precedente al 2008, né a quello del 2010.
Sebbene sia difficile fornire una stima precisa, possiamo senza timore di smentita sostenere che il governo Renzi abbia offerto, in economia, le prestazioni peggiori di tutti quelli che lo hanno preceduto, mancando tutte le occasioni di ripresa offerte dalla congiuntura internazionale e determinando in questo modo una mancata crescita per la ricchezza nazionale sicuramente non inferiore al 3%, valutata su un periodo annuale.
Messa in altro modo, grazie a Renzi e al suo governo, l’Italia ha perso non meno di una sessantina di miliardi di euro che erano a portata di mano.
Francesco Meneguzzo