Roma, 4 ago – Quarantasei. Proprio quarantasei sono le volte che, nei centocinquant’anni di unificazione, il debito italiano ha doppiato il valore del PIL. Insomma per quasi un terzo della nostra storia avremmo sforato abbondantemente il prodotto interno lordo. Quindi non è niente di eccezionale quanto la BCE, Wolgang Schäuble, Mario Monti, Renzi o Jean-Claude Juncker ci imputano oggi?
Da anni siamo pungolati da un tormentone che toglie il fiato. Avremmo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, goduto di privilegi che i luterani Paesi del Nord se li sognavano. Non avremmo esitato a saccheggiare le finanze pubbliche incuranti delle generazioni future e del senso responsabilità. Da qui nascerebbe quel debito che oggi ci strangola e che diffonde tra gli italiani una vaga idea di colpa come se avessimo all’improvviso importato e fatto nostro il doppio significato del tedesco Schuld: colpa e debito.
Ebbene per valutare adeguatamente la presunta eccezionalità del nostro debito essa andrebbe rivista e soppesata in una prospettiva storica. Solo sottraendosi dell’emotività mediatica, utile ad avvalorare le politiche di austerità o le reazione isteriche, è possibile prendere le distanze a avviare una valutazione serena. Ad aiutarci in questo disincanto arriva un libro appena pubblicato da Laterza: Il conto degli errori. Stato e debito pubblico in Italia di Leonida Tedoldi che, sebbene concentrato sulla situazione finanziarie dagli anni Settanta a oggi, non manca di consentire un’analisi disincantata dell’intera storia nazionale del debito. I suoi passi iniziali non partono però né dall’epoca berlusconiana, né dallo scialo dei socialisti. Occorre risalire ben più indietro nel tempo.
Siamo nel 1881, riportano anche i report storici sfornati del ministero del Tesoro, e siamo al battesimo della nostrana arditezza fiscale. Allora, con la salita della Sinistra storica al potere e con Agostino Depretis in sella all’esecutivo, sforiamo col debito pubblico. Ma è solo la prima di molte altre volte. A determinare l’eccesso di spesa in quel lontano anno intervengono tre fattori. Da un lato, un fattore strategico: la necessaria statalizzazione delle ferrovie che serviva a restringere le distanze in uno stato ancora molto diviso e a regolare un sistema di comunicazioni in mano a privati. Ma se questa era un’esigenza prioritaria per l’interesse nazionale le altre due ragioni probabilmente affondavano le loro ragioni nel malcostume clientelare.
Si trattava del fallimento dei comuni di Napoli e Roma. Il governo si trovò a dover chiedere, ben prima che nascesse la Banca d’Italia, agli istituti di credito privati autorizzati di emettere titoli di stato per recuperare 170 milioni di lire di allora per il capoluogo partenopeo e 50 per la capitale. La lunga storia del debito pubblico italiano comincia da lì. Ma la sua storia procederà ancora a lungo. Per venticinque anni nulla si riuscì a fare. Poi la situazione migliorò grazie all’oculata politica giolittiana. Poi tra il 1918 e il 1924, in seguito ai debiti di guerra, la situazione riprecipitò nuovamente ma le politiche messe in atto, ai tempi del fascismo, da Giuseppe Volpi riuscirono ad abbattere nuovamente il debito che tornò a farsi sentire tra il 1941 e il 1943 in tempi di guerra.
La situazione fila liscia per tutti gli anni della Guerra Fredda. Ma gli anni che seguono sono esiziali. Le politiche di adesione all’Unione europea a partire degli anni Novanta riducono i margini di manovra dei governi, rendono indipendente la Banca d’Italia e impossibile la leva monetaria per gestire il peso del debito. Così questo finisce per esplodere.
Secondo Leonida Tedoldi non si tratta però di malgoverno. Semplicemente la situazione storica cambia e il debito diventa uno strumento utile alla conquista del consenso. Ma senza la sovranità monetaria esso diventa incontrollabile. I governi che via via si succedono al potere tentano di assicurarsi l’appoggio dei governati mettendo in atto delle politiche di spesa espansive, secondo l’autore. Insomma il debito sarebbe il frutto di un errato accordo elettorale tra eletti ed elettori.
Ma queste politiche di spesa, diciamo invece noi, servono per consolidare le conquiste sociali degli anni passati senza abbandonare lo Stato sociale al suo destino neoliberista dove tutto, dalla sanità alla scuola, deve recare profitto. Per contrastare però il dissolvimento del welfare l’indebitamento si acuisce fino a dovere cercare liquidità presso investitori esteri visto che con Maastricht e l’euro la leva monetaria non spetta più allo Stato ma alla BCE.
Secondo Tedoldi così assistiamo all’alterazione della sovranità del debito. Esso non è più in mano ai cittadini e agli istituti di credito nazionali ma a finanziatori stranieri che pretendono di trarre, bene che vada, guadagno dai prestiti erogati. Se questa è la storia fino a qui conviene chiedersi se mai ci ritroveremo nelle condizioni di attuare una riconversione sovrana del debito. O magari nella possibilità poterlo tagliare grazie a un nuovo ruolo strategico ritagliatosi dall’Italia sulla scena internazionale.
Simone Paliaga
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