Sono passati vent’anni da quando nel 1993 la Cina decise di trasformare radicalmente il sistema industriale dando un maggiore impulso all’iniziativa privata, poco più di trenta da quando nel 1979 Deng Xiaoping decise di passare dal sistema di pianificazione centrale al “socialismo di libero mercato”. In pochi decenni Pechino ha cambiato marcia e non sembra intenzionata a fermarsi, anzi, la virata di ieri sembra andare verso un’unica direzione: procedere con le liberalizzazioni. Come ai tempi di Xiaoping le linee guida delineate nel plenum di ieri sono quattro: favorire uno sviluppo equilibrato delle megalopoli con un più facile accesso ai servizi pubblici di base, maggiore apertura agli investimenti stranieri, più diritti individuali e libertà d’azione per contadini e piccole imprese con spazio alla proprietà privata, lotta serrata alla corruzione dilagante.
Quella cinese è una continua parafrasi gattopardiana, se tutto cambia allora cambiamo anche noi, ma a modo nostro. L’anomalia è evidente: il ruolo del partito rimane centrale, lo Stato mantiene il controllo dei settori chiave dell’economia nazionale, ma l’iniziativa privata deve crescere in modo esponenziale. La decisione del Politburo che salta di più agli occhi è però questa: “bisogna lasciare che sia il mercato a giocare il ruolo decisivo nella distribuzione delle risorse”. Pechino non aveva mai posto il privato al di sopra del pubblico in modo così inequivocabile: “l’economia privata e quella pubblica sono entrambe parti importanti del sistema socialista”, prosegue il documento del Comitato centrale.
Ma la Cina ha deciso di svoltare anche riguardo alla politica del figlio unico. Se con essa alle coppie cittadine veniva imposto di non avere più di un figlio a carico adesso, per impedire i numerosi aborti anche in avanzato stato di gravidanza, si pensa di rivedere una legge giudicata non più necessaria.
Eugenio Palazzini
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