Roma, 20 lug – L’opportunità di dimostrare la propensione Usa verso Saddam nella Guerra tra Iran e Iraq del 1980-1988 arrivò presto. Il Kuwait stava osservando con crescente nervosismo i successi dell’Iran sul campo di battaglia, forse resi possibili da vendite di armi e informazioni di intelligence da parte degli Usa. L’Iran stava adesso attaccando anche le navi da e per i porti kuwaitiani, cosicché il Kuwait chiese la protezione degli Stati Uniti. Nel settembre del 1986 (prima dell’esplodere dello scandalo Iran-Contra), il Kuwait avviò contatti sia con Washington sia con Mosca chiedendo se fossero interessati a “cambiare bandiera” (reflagging) qualche nave kuwaitiana, ossia far battere la loro bandiera sulle navi del Kuwait e quindi di conseguenza proteggere militarmente queste nuove acquisizioni alla loro Marina mercantile. La reazione Usa iniziale fu noncurante.
Ma quando gli Usa vennero a conoscenza nel marzo 1987 che l’Unione Sovietica si era offerta di “cambiare bandiera” undici petroliere, offrirono prontamente di “cambiare bandiera” le stesse undici – cosa che avrebbe sia mantenuto l’influenza sovietica fuori dal Golfo Persico e dato agli Stati Uniti l’opportunità di dimostrare il loro appoggio all’Irak.
I kuwaitiani accettarono l’offerta Usa, declinando quella di Mosca, anche se presero in charter tre navi sovietiche per bilanciare in qualche maniera i loro rapporti con Usa e Urss, i kuwaitiani dimostrando così di aver meno timore della “contaminazione” sovietica che i loro salvatori americani. Il Sottosegretario agli affari politici Michael H. Armacost spiegò nel giugno 1987 che se fosse stato concesso all’Urss un ruolo maggiore nella protezione del petrolio del Golfo Persico, gli stati del Golfo avrebbero subito grandi pressioni per dare a Mosca ulteriori concessioni. Il punto di vista Usa era che solo a una superpotenza doveva essere permesso di avere basi e infrastrutture nella regione, e quella erano gli Stati Uniti.
Perciò, quando nel dicembre 1980 l’Unione Sovietica propose la neutralizzazione diplomatica del Golfo Persico, con nessuna alleanza, nessuna base, nessun intervento nella regione, e nessun ostacolo al libero commercio e alle rotte marittime, Washington non mostrò alcun interesse. All’agosto del 1987, gli Usa avevano nel o nei pressi del Golfo Persico una Portaerei, una Corazzata, sei Incrociatori lanciamissili, tre Destroyer, sette Fregate e altro naviglio minore e di supporto98 in quella che uno studio del Congresso definì “la più grande singola armata navale dai tempi della guerra del Vietnam”. L’Amministrazione Reagan dichiarò che il “reflagging” intendeva proteggere il flusso del petrolio, ponendo l’accento sul fatto che “qualunque significativa diminuzione nella fornitura del greggio del Golfo Persico causerebbe i prezzi mondiali del petrolio di andare alle stelle”, ricordando cupamente come gli eventi del 1973-1974 e 1978-1979 dimostrarono come “una piccola contrazione – del meno del 5% – può provocare una netta impennata dei prezzi del petrolio”.
In realtà, comunque, il petrolio – e i prezzi del petrolio, per quanto riguarda ciò – non furono mai minacciati. Sin dai primi anni Ottanta vi era stata una sovrabbondanza mondiale del petrolio, con un notevole margine di sovrapproduzione non utilizzato nelle nazioni al di fuori del Golfo Persico. Nonostante l’orrendo costo umano della guerra Iran-Iraq, il prezzo del petrolio era in effetti caduto del 50% durante il corso del conflitto. Per la fine del 1987, i due terzi di tutto il petrolio estratto nel Golfo Persico era trasportato via oleodotto. Lo studio del Congresso notò che anche nell’improbabile caso di una vera e propria chiusura del Golfo Persico, l’impatto delle forniture di petrolio e sui prezzi sarebbe stato minimo; in nessun modo lo Stretto di Hormuz poteva essere visto come la “giugulare” delle economie occidentali.
Meno che il 2% delle navi che transitarono nello Stretto furono attaccate, e anche questa cifra è fuorviante perché molti degli attacchi inflissero danni relativamente minori. Solo un attacco iraniano su dieci causava danni gravi. Significativamente, l’Iran divenne più aggressivo nell’attaccare il traffico mercantile a causa della presenza navale americana. Tra il 1981 e l’aprile 1987, quando fu annunciato il “reflagging” Usa, l’Iran aveva colpito 90 navi; in meno di un anno da quel momento, l’Iran colpì 126 navi. Come rimarcò lo studio del Congresso, “il traffico mercantile nel Golfo Persico sembra ora meno sicuro che prima che iniziasse il massiccio aumento della forza navale Usa”. Se gli Usa fossero stati interessati alla libera navigazione, avrebbero potuto tenere in qualche considerazione la proposta sovietica di ritirare le Marine Militari statunitensi e delle altre nazioni dal Golfo, e farle rimpiazzare da una forza delle Nazioni Unite.
Ma Washington non era interessata. In realtà, alcuni, come il “New York Times”, notarono come erano gli Stati Uniti che avrebbero potuto chiudere il Golfo Persico – alle esportazioni iraniane – anche se il “NY Times” aggiunse che una “tale azione sarebbe stata chiaramente impensabile a meno che non fosse richiesto dagli stati arabi della regione”. Questo per quanto riguardava la libera navigazione. Fu l’Iraq a iniziare la “Guerra delle petroliere” nel Golfo Perisco stesso nel 1981, e che continuò questi attacchi fin nel 1984 senza una parallela risposta iraniana sul mare. Due mesi dopo che l’Iraq aveva aumentato l’intensità e lo scopo degli attacchi nel marzo 1984, l’Iran iniziò infine a rispondere. Gli attacchi iracheni, ad ogni modo, superavano in numero quelli iraniani sino a dopo che gli Stati Uniti annunciarono il reflagging. La US Navy proteggeva le navi “ribandierate”, e nell’aprile 1988 estese la sua protezione alle navi neutrali che giungevano sotto attacco iraniano.
In pratica, questo significava che l’Iraq poteva colpire impunemente le navi iraniane, mentre la US Navy impediva la risposta di Teheran. Washington giustificò la sua politica rimarcando come l’Iraq attaccasse solo le navi iraniane, mentre l’Iran prendeva di mira anche le navi dei neutrali, e il Kuwait in particolare. Questo era un argomento legale dubbio in due punti: primo, il Kuwait era un neutrale impegnato in un comportamento piuttosto poco neutrale. Tra l’altro, apriva i suoi porti alle consegne di materiale bellico che erano poi trasportate via terra all’Iraq. Secondo, anche l’Iraq colpiva navi neutrali, perfino dell’Arabia Saudita – quando esse facevano scalo in Iran. L’Iraq dichiarò certe acque iraniane “zone di esclusione di guerra”, ma come notò un esperto di diritto internazionale, il “metodo [iracheno] di farle rispettare rassomigliava da vicino i metodi tedeschi” della seconda guerra mondiale, e in “ultima analisi la zona di esclusione irachena non poteva essere giustificata”. Gli “attacchi alle navi mercantili neutrali da ambo le parti devono essere condannati come violazioni del diritto internazionale”. Non c’era quindi nessuna giustificazione legale per gli USA nello schierarsi dalla parte dell’Iraq nella “Guerra delle petroliere”.
E era ancora più privo di senso il riferirsi alla U.S. Navy come una forza di peacekeeping [mantenimento della pace]. Gary Sick, un ex ufficiale del Consiglio Nazionale di Sicurezza in carica in Iran, asserì che le unità navali americane “erano state schierate aggressivamente e provocatoriamente nei punti più caldi del Golfo Persico”. “La nostra strategia di pattugliamento aggressivo”, osservò, “tende a iniziare degli scontri, non a farli finire. In alcuni momenti ci comportiamo come se il nostro obiettivo sia pungolare l’Iran in una guerra con noi”. Secondo un rapporto del Congresso, funzionari in ogni paese del Golfo Persico erano critici della “maniera altamente provocatoria nella quale le forze Usa sono schierate”. Quando nell’aprile 1988 gli Usa trasformarono il danneggiamento di una nave americana a causa di una mina marina nella più grande battaglia navale della U.S. Navy dalla seconda guerra mondiale [l’Operazione Praying Mantis, NdC], “Al Ittihad”, un quotidiano che spesso rifletteva l’opinione governativa degli Emirati Arabi Uniti, criticò gli attacchi Usa, rimarcando come essi aggiungessero “carburante alla tensione del Golfo Persico”.
La postura aggressiva degli Usa era in marcato contrasto con quella dell’Unione Sovietica. Anche l’Unione Sovietica stava scortando delle navi nel Golfo Perisco, particolarmente bastimenti trasportanti armi in Kuwait per l’Iraq. Il 6 maggio 1987, delle motovedette iraniane attaccarono una nave mercantile sovietica, e due settimane più tardi una delle navi sovietiche prese in charter dal Kuwait rimase vittima di una mina marina, la prima dal 1984. Questi avvenimenti non sono molto conosciuti, perché la risposta sovietica fu estremamente mite. La condotta politica nel Golfo Persico è stata oggetto di uno studio commissionato dall’U.S. Army e scritto dallo stimato e peso massimo intellettuale Francis Fukuyama della Rand Corporation. Fukuyama concluse che il “nuovo pensiero” di Gorbaciov [la Perestrojika, la “nuova linea” politica, economica e sociale propugnata dal premier sovietico, NdC] per quanto riguardava il Golfo Persico era solo retorica, perché Mosca continuava a inseguire una politica di “somma zero” (ossia, totale competizione) a fronte degli Stati Uniti.
Ma i fatti presentati nello studio suggeriscono una conclusione piuttosto differente. Fukuyama nota che i “sovietici, è vero, avevano di fronte una amministrazione Usa che essa stessa stava giocando un gioco alla “somma zero” ben simile nel Golfo Persico… Quello che i sovietici potessero fare se confrontati da degli Stati Uniti più collaborativi non si può provare e di conseguenza è sconosciuto”. Nondimeno, per Fukuyama l’Urss è da incolpare poiché dal momento che Gorbaciov era stato accomodante in altre questioni politiche davanti all’intransigenza Usa, allora tanto valeva che lo fosse anche nel Golfo Persico. Fukuyama riconosce che l’Unione Sovietica si trattenne dal seguire altre, più aggressive politiche nel Golfo Persico, come tentare di superare Washington nell’influenzare il Kuwait. Osserva che le unità navali sovietiche nel Golfo Persico non furono impiegate offensivamente, in contrasto con quelle degli Stati Uniti (in effetti Fukuyama indica come sin dai primi anni Settanta, Mosca aveva rallentato lo sviluppo della sua capacità di proiezione di forza, al contrario degli Stati Uniti).
L’Urss cercò di impiegare degli strumenti economici e politici per condurre la sua linea nel Golfo Persico, piuttosto che quelli prevalentemente militari usati dagli Usa. E quando Mosca cercò in effetti il suo vantaggio in relazione con l’Iran, lo fece in risposta agli accordi segreti a Teheran della Casa Bianca. In breve, se la politica sovietica nel Golfo Persico può essere criticata per il suo insufficiente “nuovo pensiero”, al suo confronto la politica Usa rifletteva un approccio dell’Età della Pietra. Il provocatorio intervento navale Usa nel Golfo Persico causò numerose vittime civili innocenti. Nel novembre 1987, una nave statunitense aprì il fuoco di notte con le sue mitragliatrici contro una imbarcazione ritenuta un motoscafo iraniano dalla condotta ostile; in realtà esso era un peschereccio degli Emirati Arabi Uniti. Una persona fu uccisa e tre ferite.
L’incidente più grave fu l’abbattimento da parte dell’Incrociatore lanciamissili Vincennes di un aereo di linea iraniano, con la morte di tutte le 290 persone a bordo. Il comandante di un’altra nave Usa nel Golfo Persico notò che mentre “la condotta delle forze militari iraniane nel mese precedente l’incidente era stata intenzionalmente non aggressiva” le azioni del Vincennes “apparvero essere costantemente aggressive”, portando diversi membri della US Navy a riferirsi alla nave come “Robo-Cruiser”. Queste tensioni nel Golfo Persico continuarono a promuovere un importante obbiettivo Usa: incoraggiarono gli stati del Golfo Persico ad accrescere la loro cooperazione militare con gli Stati Uniti. Come sopra notato, gli Stati Uniti avevano usato la guerra Iran-Iraq come leva per ottenere degli ulteriori diritti per stabilire delle basi nella regione del Golfo Persico. L’operazione di reflagging migliorò ancora la posizione Usa. Secondo un rapporto della Associated Press, il Generale Usa al comando della Rdf dichiarò che gli “Stati Uniti hanno guadagnato una credibilità senza precedenti con i leader arabi come risultato del loro impegno navale in vasta scala nel Golfo Persico”.
Andrea Lombardi
1 commento
..la ” diplomazia” dellle armi..chi ne ha di più..