Damasco, 29 set – Limpido e vicino, una patina azzurra senza ombre scure e nessuna nuvola a deviare beffarda i raggi del sole. E’ così che percepisci il cielo a Damasco in questi giorni di settembre. Quando allora al mercato di frutta fresca, intorno al campo dei rifugiati interni, anche i bambini restano indifferenti non appena giunge l’eco dell’ennesimo colpo di mortaio, capisci che dopo 4 anni di guerra il sussulto non è previsto in questa parte di mondo.
“Io non ho paura, perché ho il mio presidente Assad e lo so che alla fine vinceremo”. Ahmed Kojahn ha 11 anni e pochi giorni fa ha perso entrambe le gambe, una bomba targata Isis lo ha centrato mentre giocava a pallone. Lo incontriamo nella sua camera all’ospedale Moujtahed, una struttura sanitaria governativa che accoglie decine di feriti colpiti dagli attacchi dei terroristi. Le loro storie sono tutte impressionanti, ma che siano fanciulli mutilati o anziane signore ferite che già si sono viste ammazzare i figli, è la forza dei loro sguardi a inchiodarti alle tue colpe.
Perché chi ha permesso tutto questo è anche la pavidità del tuo governo. Perché di fronte a una ragazza che a pochi giorni dalla laurea in ingegneria viene colpita nella propria abitazione da un razzo sparato dal “Fronte Al Nusra” e che riesce ad ottenere il titolo dal lettino di un ospedale, non puoi far finta di non sapere che i suoi attentatori fanno parte di uno di quei simpatici gruppi di fanatici tagliagole che parlamentari e media europei a lungo hanno inserito nella schiera dei “ribelli moderati”. E che spesso continuano ad essere definiti semplicemente “inaffidabili”, una sorta di “compagni che sbagliano”.
Perché a una ragazza di venti anni ferita gravemente da un’esplosione e che sorridendo ti dice “sono triste e incazzata allo stesso tempo con i siriani che abbandonano la propria terra, ma sono fiera del nostro popolo che non scappa e rimane in Siria a combattere i terroristi”, non puoi promettere altro se non che racconterai la sua storia.
Perché alla scuola pubblica, completamente gratuita, dove studiano i figli dei soldati dell’esercito di Assad uccisi dai terroristi, incontri gli occhi di madri che non versano lacrime. Che ti chiedono solo di portare un messaggio di verità, di non permettere più che venga distorta una realtà eppure così chiara: noi siamo un popolo libero che avete abbandonato ad una solitaria lotta contro i terroristi che minacciano anche voi.
Perché poi incontri un signore di settanta anni che ha perso tutta la famiglia e che si ritrova solo a crescere un bambino di sei anni. Ma non ha nulla di cui lamentarsi, ti dice solo: “Al primo posto ci sono dignità e onore. Dite a tutti coloro che incontrerete al vostro ritorno che siamo disposti a sacrificare qualunque cosa per la nostra Patria”.
E allora capisci che non puoi permetterti di raccontare solo delle storie, non solo perché non basta. C’è qualcosa di assolutamente necessario che puoi fare anche per te stesso. C’è che sei tu ad aver perso tutto, perché il tuo popolo quello sguardo non ce l’ha. Glielo hanno cancellato, è stato gettato via da quello che ci ostiniamo a credere il migliore dei mondi possibili. Perché quelle parole il tuo popolo non le usa, perché patria, onore, sacrificio sono termini svenduti al mercatino dell’usato come ferri vecchi da sbeffeggiare. Morti come gli sguardi di chi incontri uscendo di casa.
Perché loro invece non sono ancora morti e ti stanno indicando una strada per risorgere. No loro non sono morti, neanche e soprattutto quelli caduti in battaglia e seppelliti. Loro no, loro ancora sono tutti fottutamente vivi.
Dai nostri inviati a Damasco, Eugenio Palazzini e Guido Bruno
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1 commento
Spero che l’aiuto di Putin serva ad Assad per salvare la Siria.
Farò leggere le vostre dure condizioni di vita ai miei 70mila lettori
buona fortuna