Roma, 22 giu – Chiunque abbia masticato un po’ di vita da spogliatoio – a qualsiasi livello – sa che il momento peggiore per analizzare una partita è proprio nelle battute immediatamente successive alla fine dell’incontro. Le famose (e spesso fuorvianti) considerazioni a caldo. Passato però un giorno e mezzo dalla netta – nelle modalità in cui è maturato il risultato – sconfitta contro la selezione iberica possiamo fare qualche fredda, e magari più lucida, considerazione. Da dove ripartire dopo Italia-Spagna?
La Tradizione conta
Iniziamo da un dato di fatto. La Roja ci ha preso a pallonate, come d’abitudine purtroppo. Non superiamo nei novanta minuti di gioco l’altra grande selezione del Mediterraneo europeo dall’ormai lontano 2016. Era l’Italia operaia di Antonio Conte, quella che per intenderci schierava in pianta stabile De Sciglio, Parolo, Giaccherini e Pellè. Buoni mestieranti – con tutto il rispetto – niente di più. Tre anni fa, nella semifinale del torneo continentale itinerante, passammo solamente dopo la lotteria dei rigori. E una prestazione da coltello tra i denti. Uomo simbolo dei mercuriali giorni londinesi? Giorgio Chiellini, ovviamente.
Laboriosità e mordente, appunto. Ovvero gli elementi che hanno contraddistinto ogni spedizione azzurra degna di ricordo. Giocare all’italiana è prima di tutto una predisposizione mentale. Questo perché, a differenza della Spagna, qui per fare bene i giocolieri – cosa diversa dai campioni propriamente detti – possono anche non servire. Questione di dna: nel patrimonio genetico delle furie rosse c’è il palleggio, in quelle azzurre compattezza e verticalità. Semplici appunti per smontare fantasiose tesi che vorrebbero spagnoli ripudiare il giochismo o tedeschi trasformati all’improvviso in brasiliani. A proposito dei padroni di casa: la Mannschaft può forse apparire oggi più armonica e meno muscolare. Ma rimane tra le prime squadre per altezza media – quindi maggiormente fisiche – del torneo.
La lezione di Italia-Spagna
La Tradizione, insomma, conta anche nel calcio. Ma torniamo agli azzurri: in tal senso che cosa ci ha detto Italia-Spagna? Innanzitutto che gli iberici hanno un tasso tecnico, una facilità di fraseggio, davvero superiore alla nostra. Scoperta dell’acqua calda, ma per lo meno la seconda gara del girone B ha certificato ciò che non siamo.
Nessun processo, non è questo il tempo. Non ci soffermeremo su questioni tattiche – retroguardia a tre piuttosto che a quattro – o di singoli (come l’utilizzo del doppio regista difensivo contro una compagine superiore). Non possiamo essere quelli delle marcature morbide. E nemmeno chi – peccato di presunzione – si permette di uscire matematicamente dalla propria area con la palla nei piedi. Prendere invece ripetizioni di storia. Sfiorare l’apologia di epiche barricate, maglie strappate, salutari scarpate. E non sarà più il tempo del “palla lunga e pedalare”, concordiamo. Ma il contropiede, insomma, è sempre in voga. Sistemata la testa, qualche metro più avanti il resto andrà da sé.
La Tradizione non è acqua, verrebbe da dire. Piuttosto assomiglia al sangue. E ciò non significa rinuncia del (bel) gioco. Vuol dire portare un nemico più forte in un campo meno congeniale. Prendere coscienza di quando poter usare il fioretto e quando, al contrario, sarebbe doveroso scendere in campo con il pugnale – ogni riferimento alle gare con Albania e Spagna è puramente intenzionale.
Sorga la repubblica del tiki-tackle
Ci interessa il presente: una competizione corta, snella, che si avvia alle fasi ed eliminazione diretta. Dove, spesso e volentieri, i più attrezzati se ne tornano a casa. È l’Europeo, bellezza. Ci sono avversari contro cui si può (deve) comandare la partita e altri che ti costringono a fare di necessità virtù. Abbiamo almeno quattro squadre davanti, ma siamo l’Italia. E anche senza i campioni – qualunque cosa voglia dire – dobbiamo badare al risultato. Sarà smentito dai fatti, ma chi scrive crede che Italia-Spagna sia stata solo un’infelice interpretazione di una gara che andava incarnata (troppo) diversamente.
A patto di tornare a fare quel che meglio ci riesce. Senza nessuna nostalgia del catenaccio, dei tempi che furono e del calcio romantico. Ritrovare la nostra via, stando ovviamente al passo coi tempi. Poi – eventualmente – discutere di tecnici e giocatori, tattiche e sostituzioni. Sorga, ancora una volta, la repubblica del tiki-tackle.
Marco Battistini