Roma, 3 lug – Il centro-destra è al lavoro per una proposta di legge sul fine vita, con un testo composta da quattro articoli arrivato sui tavoli del comitato ristretto del Senato. Sei anni fa, nel 2019, la Corte Costituzionale aveva aperto al suicidio assistito e invitato il Parlamento a legiferare in materia.
La proposta di legge del centro-destra
La mossa della maggioranza sembra quindi essere quella di ottemperare alla richiesta della Corte Costituzionale, andando così a riempire quello che viene indicato come un vuoto normativo, però in un senso più restrittivo. Insomma, l’intenzione è di arrivare per primi ed evitare che la palla passi alla sinistra, ma il rischio è che un’apertura del genere si riveli una sorta di piano inclinato. Gli snodi centrali della proposta di legge sono: le cure palliative che rappresentano un pre-requisito per il suicidio assistito e che dovranno essere garantite in tutte le ragioni; il Comitato etico che valuterà le domande per il suicidio assistito dovrà essere nazionale e unico; e soprattutto l’esclusione del Sistema Sanitario Nazionale dal trattamento del suicidio assistito. La strada per arrivare a un disegno di legge condiviso è comunque ancora lunga e la minoranza si è già mostrata scontenta dei primi passi del centro-destra. Ad esempio, Ilaria Cucchi ha parlato di “pessima proposta”.
Le domande senza risposta sul suicidio assistito
Sul tema del fine vita si intrecciano piani innumerevoli che non sempre è facile districare e che superano la normale dialettica politica. A partire da quello del conflitto Stato/individuo. Quello di poter morire è davvero un diritto individuale che lo Stato deve garantire? O, al contrario, il suicidio assistito è una forma aberrante di sopruso biopolitico, un atto distopico di quello Stato “più freddo di tutti i mostri”, per dirla con Nietzsche, che in esso trova un modo per sbarazzarsi del peso degli inutili? E poi, chi deve decidere del dolore? Il singolo, con il rischio che ad essere reputate intollerabili siano sofferenze da niente, o la collettività? E ancora, cosa rappresenta di più un attentato contro la vita, la sua distruzione volontaria o il costringerla innaturalmente in un supplizio senza fine?
Quel fondo oscuro e inviolabile dell’io
Per cercare di districarci in questa matassa facciamo un passo indietro e interroghiamoci sul concetto di suicidio. Aveva fatto discutere il caso di Martina Oppelli, divenuta tetraplegica a causa di una malattia neurodegenerativa, a cui più volte è stato rifiutata la richiesta di suicidio assistito in quanto senza trattamento di sostegno vitale in corso. In un suo intervento video si era così espressa sul suicidio assistito: “termine che io aborro, perché non sono una suicida”, preferendo parlare invece di “buona morte”. Ma proprio questo rifiuto del suicidio, questa sua edulcorazione, ci porta verso il nocciolo del problema. Il suicidio è un atto a-morale che per sua natura sfugge i giudizi, qui vittima e carnefice, sacrificato e sacrificante coincidono. Il suicidio è ovviamente legato in profondità all’io, ne può essere la scelta estrema, l’ultima affermazione o il compimento della propria auto-distruzione. Non è un caso che spesso venga criticato come atto egoistico o, al contrario, venga più facilmente tollerato quando i motivi che lo muovono servano ideali più grandi del singolo (serve davvero citare il Catone di Dante?). In questa dimensione così profondamente individuale, il suicidio non è un diritto, non è una libertà che si può dare o strappare all’uomo: è già lì, da sempre.
Una volontà palliativa
Ma tutto questo evoca una dimensione impolitica, oscura, incomunicabile, violenta, in cui lo Stato non può davvero entrare, se non superficialmente. Una dimensione che viene, però, negata una volta che si vuole normare, burocraticizzare e standardizzare. Ci troviamo così nel paradosso che proprio quando si pretende che il suicidio sia un diritto, esso perde la sua inviolabilità. Una contraddizione che permea molta della retorica dei cosiddetti diritti individuali. Quest’ultima vuole lo Stato al servizio del cittadino, dei suoi desideri e delle suo ambizioni, pretendendo un riconoscimento pubblico di ciò che è intimo, il quale in questo modo smette di essere davvero tale. I progressi della medicina e le situazioni al limite che si possono creare, forse, giustificano materialmente un intervento legislativo sul fine vita e sul suicidio assistito. Per certi versi, qui il termine problematico non è “suicidio”, ma “assistito”, in una sorta di esternalizzazione della morte. Ritroviamo una volontà palliativa, in cui tutto deve essere rassicurante, positivo, indolore, perfino il suicidio.
Michele Iozzino