Roma, 13 dic – La crisi sistemica e endemica che attanaglia il nostro paese da oramai oltre sei anni erode tutto: potere d’acquisto, salari, esportazioni, consumi, produzione industriale, accesso al credito, e a farne le spese sono un po’ tutti gli italiani con poche debite eccezioni di chi viceversa si è visto ulteriormente gonfiare i propri guadagni.
Ma questa è un’altra storia e riguarda quel processo di sperequazione in atto in Italia per il quale il 10% della popolazione detiene la metà della ricchezza nazionale: una prassi dei massimi sistemi capitalistici che si evidenzia ancor più nelle fasi di recessione economica. Un desolante paesaggio da nazione decadente quello che ci indicano i dati economici. Siamo già ai confini del mondo che conta, il rischio concreto di scivolare ancora più in basso è fondato, tangibile, sotto gli occhi di tutti.
Tanti, dicevamo, sono i campi in cui è possibile riscontrare questa debacle tutta italiana. Le aziende faticano sempre più, ma il made in Italy fa gola e attrae ancora. E così, approfittando della difficile contingenza economica, numerose società straniere vengono a fare acquisti a prezzi da saldi. Mettere le mani sui gioielli dell’imprenditoria italiana è diventato più facile, complice anche un governo poco incline a politiche difensive ed entrato nella logica che sono benvenuti capitali freschi soprattutto se stranieri. I francesi nel giro di pochi anni ha fagocitato tutto il nostro settore alimentare (Parmalat, Galbani, Eridania), il lusso (Bulgari, Gucci, Bottega Veneta, Pomellato, Loro Piana) e l’energia (Edison). Senza dimenticare il comparto bancario con Bnp-Paribas diventata azionista di controllo di Bnl e Crédit Agricole, azionista di controllo di CariParma. Ma hanno fatto clamore anche le acquisizioni dei cinesi e degli arabi e si è parlato di colonizzazione da parte dei potenti fondi di investimento anglosassoni. Ma c’è di più, e sta passando quasi inosservato.
La Germania sta procedendo ad uno shopping sistematico e continuo puntando sul cuore del sistema imprenditoriale italiano: le piccole e medie imprese del settore della tecnologia. Solo nel corso di quest’anno sono 18 le imprese tricolore passate in mani teutoniche. A questa cifra, censita al 30 di settembre, vanno aggiunte altre cinque acquisite successivamente: MV Agusta, la trevigiana Happy Fit acquistata da McFit (catena tedesca del fitness leader in Europa), la bergamasca Clay Paky, leader mondiale delle luci usate nei grandi eventi, dai concerti alla notte degli Oscar, passata alla Osram. Poi la bolognese Egs, specializzata in protesi digitali e 3D per odontoiatria, aerospaziale e automotive, rilevata dal gruppo Heraeus Kulzer. E per ultimo, la multinazionale Wika, che produce miscelatori di pressione, ha messo le mani sulla milanese Ettore Cella, da anni suo fornitore, specializzata in termostati per l’industria chimica e Oil&Gas.
In questi settori industriali i tedeschi sanno di avere come migliori competitor le aziende italiane. E quale soluzione può esserci per abbattere la concorrenza tricolore se non quella di acquistare le stesse sue aziende? La Germania procede indisturbata a fare acquisti con il vantaggio di essere cosciente di non avere un avanzo commerciale da correggere. E così, mentre le aziende italiane annaspano nelle difficoltà di tasse troppo elevate e di uno Stato presente solo nell’aspetto delle lungaggini burocratiche, con l’aggiunta di un sistema creditizio che ha chiuso i battenti, è solo il Financial Times, ribattutto dall’Huffington Post a sollevare la questione. Per il resto solo il silenzio. Il silenzio drammatico di un governicchio imbelle.
Giuseppe Maneggio