Roma, 2 dic – A Miami non sta andando in scena un negoziato multilaterale, bensì la prova generale di un nuovo ordine europeo scritto sopra la testa dell’Europa. Donald Trump punta a chiudere il conflitto ucraino con un accordo rapido e doloroso: cessione di territori a Mosca, congelamento del fronte, stabilità di facciata. È la “pace” che circola da mesi nelle conversazioni riservate e che il Cremlino ha sempre considerato l’obiettivo minimo della sua invasione. Putin del resto lo ha ripetuto sistematicamente: non arretrerà finché non avrà il controllo pieno del Donbass. Il punto quindi non è più come fermare la guerra, ma quanto si imporrà pur di poter dichiarare che è finita.
Le trattative di Miami impongono le richieste russe
Il negoziato, di fatto, è già iniziato. E l’Italia, come l’Europa, non è nella stanza. A Miami si sono seduti l’imprenditore Steve Witkoff, il Segretario di Stato Marco Rubio e Jared Kushner per la parte americana; dall’altro lato Umerov, consigliere per la sicurezza nazionale di Kyiv, il generale Hnatov e il vice capo dell’intelligence Skibitskyi. “Produttivo”, lo hanno definito i presenti. La sostanza è un’altra: Washington tratta direttamente con Kyiv per poi andare a Mosca con un calendario dettato dalla Casa Bianca, non da Bruxelles, né da Berlino, e men che meno da Roma. Le registrazioni rese note da Bloomberg sulle telefonate tra Witkoff e funzionari russi, in cui si illustra come convincere Trump ad accettare le richieste del Cremlino, fotografano bene la dinamica reale. Ci sono gli Stati Uniti, c’è la Russia, e c’è l’Ucraina che tenta di evitare di essere ridotta a pezzi. L’Europa, al massimo, riceve aggiornamenti a valle. Come un destinatario messo in copia, non come un partecipante. Questa marginalità, è bene ribadirlo, non è frutto del destino: è il risultato di una scelta pluridecennale. L’Europa ha rinunciato a costruire una difesa autonoma, ha delegato la sicurezza strategica a Washington e ha pensato bene che il gas russo fosse una politica energetica sostenibile. Oggi scopre – troppo tardi – di non avere leve da utilizzare. Non può imporre condizioni, non può garantire sicurezza, non può difendere i propri interessi se il tavolo è apparecchiato per due.
La propaganda che legittima l’invasione
In questo vuoto strategico si è infilato un vuoto culturale: una narrazione filorussa che da anni prepara, normalizza e giustifica proprio il tipo di pace che si discute a Miami. Non si tratta di diplomazia parallela, ma di lavoro ideologico. In Italia basta osservare il caso del Fatto Quotidiano. Un giornale che se non apertamente “filorusso”, nel senso formale, si sovrappone alla comunicazione del Cremlino in un apparato di legittimazione. Prima si diffonde l’idea che la Russia abbia “già vinto”; poi diventa inevitabile presentare come “realismo” qualsiasi trattativa che certifichi quella vittoria. Marco Travaglio e una corte che va da Di Battista ad Orsini e Rizzo, ripetono senza sosta che “la Russia ha vinto e l’Occidente ha perso”. È un mantra che non descrive il fronte di battaglia reale – Pokrovsk e Vovchansk sono in mano russa solo da poche ore ma il Cremlino non controlla interamente le regioni che rivendica – ma parla ad una predisposizione psicologica del lettore occidentale. Perchè se la vittoria russa è un fatto acquisito, allora cedere territorio all’invasore non è un’umiliazione ma un mercantile “buon senso”. Chi legge da due anni questa narrativa non percepisce la cessione come un ricatto: è stato educato a considerarla la sola prospettiva ragionevole. L’aggressione diventa contesto, l’invasione diventa incidente, la volontà di Putin diventa “dato di realtà”. Così un rapporto propagandistico prodotto da una fondazione russa e presentato all’Osce viene trasformato in un “report Osce”. Così la leggenda dei negoziati di Istanbul “sabotati dall’Occidente” diventa storia ufficiale, nonostante le fonti dicano l’opposto. Così un singolo deputato diventa “tre partiti nazisti in parlamento” per alimentare la narrativa della “denazificazione”.
Propaganda e diplomazia in parallelo
Il risultato è semplice: rovesciare le domande. Invece di chiedersi cosa vuole ottenere Putin, ci si domanda quanto l’Ucraina dovrebbe concedere. E la risposta implicita è: molto, purché si chiuda questa storia e si possa tornare a pensare alle nostre pensioni. Quando François Hollande parla di “condominio russo-americano”, dice a voce alta ciò che questa narrazione prepara da anni: una pace come spartizione. L’Europa ridotta a spettatrice perché convinta – da sé stessa e da parte del suo giornalismo – di non poter contare. Oggi propaganda e diplomazia viaggiano in parallelo, con la stessa direzione di marcia. La prima lavora sul senso comune, la seconda sui governi. L’obiettivo è identico: accettare la Russia “come è” e trasformare una resa politica in un atto di realismo. E dato che Il Primato Nazionale non deve nulla né a Washington né a Mosca, può permettersi una chiarezza che altri evitano: non c’è nulla di “realista” nel riconoscere con la trattativa ciò che la forza non ha imposto sul campo. Non c’è strategia nel cedere territori perché l’alleato senior vuole archiviare il dossier. E non c’è nulla di intelligente nel farsi raccontare da giornali, politici e intellettuali che ciò che viene deciso a Miami è “inevitabile”.
Miami e l’Europa messa sotto
Il primo atto di lucidità sarebbe quello di smettere di confondere propaganda e analisi. Il secondo è capire che a Miami non si decide solo il destino dell’Ucraina, ma il punto esatto in cui l’Europa smette di contare. La vera domanda è se intendiamo accettarlo come “realismo” o se siamo ancora in grado di chiamarlo con il suo nome: sostituzione della volontà europea con quella di due potenze esterne. Non è da escludere, come detto altre volte, che a più di qualcuno possa piacere molto come idea. Noi continueremo a dire che il destino dell’Europa dev’essere deciso dagli europei.
Sergio Filacchioni