Roma, 6 lug – «Invidio il senso del 4 luglio americano. Il nostro è il 17 marzo». La frase è di Giorgia Meloni, pronunciata con quella consueta tensione identitaria che ogni tanto riaffiora — quasi per errore — nel linguaggio della politica italiana ufficiale. Una frase che ha fatto il giro dei social, qualche titolo nei giornali, e poi come sempre: l’oblio.
Il 17 marzo e il patriottismo di cartapesta
Ma fermiamoci un attimo. Non tanto su chi l’ha detta (non è questo che ci interessa), quanto su cosa ha detto. Perché qui, forse senza volerlo, Meloni ha toccato una verità scomoda: l’Italia è un Paese che ha smarrito il suo mito fondativo. E senza mito, non esiste Nazione. Il 17 marzo è l’anniversario dell’Unità d’Italia. Sulla carta, dovrebbe essere il nostro 4 luglio. Ma nella realtà non è niente: una ricorrenza invisibile, un esercizio di memoria fredda, relegata ai sussidiari e a qualche nota ufficiale. Non c’è popolo, non c’è fuoco, non c’è pathos. Gli americani hanno fatto del 4 luglio il loro primato civile. Lo celebrano con orgoglio, lo vivono come festa collettiva, rito laico e sacro insieme. E noi? Un Paese che ha fatto la sua unità con il sangue dei suoi figli, con i sogni titanici del Risorgimento, si ritrova incapace di ricordare anche solo perché esiste. Ma attenzione: non basta rispolverare il 17 marzo. Serve rifondarlo. Il rischio — e qui la Meloni sembra sfiorarlo — è quello di limitarsi a rivendicare un giorno di festa in più. Come se bastasse mettere una bandiera sul balcone per ritrovare la Nazione: un patriottismo comodo, di cartapesta, che non da fastidio a nessuno se non alla sinistra che per l’occasione si è riscoperta “anti-americana”.
Berto Ricci l’aveva già capito
In fondo, il problema è sempre lo stesso: l’economia come idolo, la tecnica come religione, il denaro come misura dell’uomo. È questa la vera usurpazione del nostro tempo: non solo l’oblio della patria, ma la riduzione della storia a statistica, dell’identità a consumo. Berto Ricci lo aveva capito con lucidità profetica, e nel giugno del 1939 scriveva su Gerarchia parole che oggi suonano più attuali che mai: “bisogna trascendere non a parole ogni usurpazione dell’economia sulla storia e sull’uomo”. Non basta dichiararsi patrioti, non basta evocare l’Unità d’Italia: serve un atto di rottura. Una rivolta morale contro ogni riduzionismo utilitarista. O si restituisce all’Italia la sua dimensione tragica, spirituale e organica — oppure continueremo a sventolare bandiere sopra un deserto. In questo contesto, anche la riflessione di Enrico Corradini torna utile come una scudisciata. Nella sua visione, la Nazione non è una forma amministrativa o una cornice istituzionale, ma una forza viva, una volontà collettiva, una proiezione di potenza storica. Ecco perché parlare del 17 marzo in termini di “festa” è già un errore. Non c’è nulla da festeggiare, finché non si rianima quella forza.
La nazione di Corradini
Corradini lo diceva con spietata chiarezza: non esiste Nazione senza lotta, senza disciplina, senza gerarchia, senza missione. Ogni volta che l’identità italiana viene ridotta a folklore, a retorica elettorale, a nostalgia da cerimonia, la sua forza si indebolisce. Quello che manca oggi non è la festa del 17 marzo. È il contenuto da darle. Cosa vogliamo essere? Qual è la nostra missione storica? In che modo l’Italia può tornare a essere un centro di civiltà e non solo un museo all’aperto? Ricci parlava di spiritualismo, di un’economia al servizio dell’uomo e non viceversa. Parlava di superare la dicotomia destra-sinistra per entrare in una terza dimensione, in cui l’azione politica è anche educazione, estetica, religione civile. Parole lontane anni luce dal grigiore burocratico di oggi ma che interrogano chi non si lascia abbindolare dalle sole parole.
Nostalgia per uomini come Pound
Prima di invocare con malinconia un 4 luglio alternativo, bisognerebbe ricordare che vi fu un tempo in cui era l’America a guardare all’Italia come modello di civiltà organica. Ce lo ricorda Ezra Pound nel suo Jefferson e Mussolini, un libro tanto dimenticato quanto esplosivo, scritto nel pieno degli anni Trenta, quando il poeta statunitense — trasferitosi a Rapallo — intravedeva nell’Italia fascista l’unica alternativa concreta alla decadenza morale e finanziaria del mondo anglosassone. Per Pound, Jefferson e Mussolini rappresentano due archetipi di un medesimo sogno politico: una società armonica, fondata non sull’usura ma sulla giustizia economica, sulla funzione sociale del lavoro, sul radicamento territoriale, sulla gerarchia dei valori. L’Italia mussoliniana, in quel contesto, non era percepita come una caricatura autoritaria, ma come una rivoluzione seria, concreta, fondata sull’etica nazionale e sul rifiuto del caos liberale. In quegli anni, Mussolini affascinava molti ambienti culturali americani, nonostante la propaganda democratica cercasse di soffocare ogni voce dissidente. Il mito dell’uomo nuovo, dello Stato etico, del popolo rigenerato, si contrapponeva al declino nichilista delle masse atomizzate d’oltreoceano. Pound vedeva nell’Italia non un relitto del passato, ma l’unico cantiere ancora aperto per costruire una modernità alternativa, non schiava del profitto. Ecco perché oggi, mentre alcuni politici italiani esprimono “invidia” per il patriottismo americano, il vero scandalo è la memoria corta. Perché la tragedia non è solo non avere una festa come il 4 luglio. La tragedia è dimenticare che un tempo non avevamo bisogno di copiare nessuno. E oggi, se qualcosa va ricostruito, non è una nuova liturgia istituzionale: è quella vocazione storica e spirituale che seppe parlare — anche oltreoceano — a chi cercava un’alternativa alla civiltà dell’usura.
Un 17 marzo per chi?
Vogliamo davvero celebrare l’Unità d’Italia? Allora iniziamo col dire che non può esserci unità senza un popolo e senza un’ identità. E che un popolo senza senso del tragico, senza fede nella propria storia, senza capacità di immaginare un futuro, è già morto. A chi faremo festeggiare il 17 marzo? Ai “nuovi” italiani che il decreto flussi e lo ius scholae provvederanno a modellare nei prossimi anni? È vero: la sinistra post-nazionale ha fatto di tutto per cancellare il patriottismo. Ma anche certa destra istituzionale ha ridotto la patria a brand, la storia a nozione, il Risorgimento a museo, la cittadinanza a semplice amministrazione. Il risultato? L’Italia è una nazione, formalmente, ma non potenza in atto. Meloni ha ragione a “invidiare” il 4 luglio. Ma quella invidia deve sublimare da senso di colpa a sfida mobilitante. Senso di colpa per aver lasciato spegnere l’Italia nel provincialismo liberale. Sfida mobilitante per rifondarla, radicalmente, su nuove traiettorie europee più che occidentali. Non si tratta di rievocare il 1861, ma di fare oggi ciò che fu fatto allora: unire, creare, rischiare.
Sergio Filacchioni