Roma, 12 nov – La caduta del Muro di Berlino cosa rappresenta oggi? A tre giorni dalla ricorrenza di quel glorioso giorno di trentacinque anni fa, in cui i fratelli dell’Est cantavano vittoriosi e gloriosi sulle macerie dell’orrore che l’URSS aveva inflitto nel corso dei decenni precedenti, ci chiediamo: perché quel 9 novembre non si è trasformato in quella che avrebbe potuto essere la sua naturale prosecuzione, ovvero una grande rivincita europea sulla sconfitta del 1945?
Una possibilità oltre il Muro
La risposta ovviamente non può essere una sola, per una serie di ragioni: da una parte i comunisti d’Occidente, i quali, come se non avessero alcuna responsabilità, si riciclarono abilmente, continuando a stravolgere la storia e a mantenere intatto il dogma di esser loro dalla parte giusta. I frutti marci sono ben ravvisabili dall’etichetta che continua ancora oggi ad essere adoperata, ovvero quella dell’antifascismo. Dall’altra, il mondo capitalista e liberale, coerentemente alla sua intrinseca natura affine a talune parole d’ordine quali uguaglianza ed economicismo ebbe tutto l’interesse a far entrare nella propria orbita i vecchi comunisti, a trasformarli in progressisti e a rendere la caduta del muro di Berlino come il simbolo del trionfo del capitale e non come invece avrebbe dovuto il trionfo dell’identità sull’omologazione, della tradizione e dello spirito sulla materia e dell’orgoglio dell’appartenenza sullo sradicamento, nonostante fosse ben chiaro ciò che provarono gli europei dell’Est il giorno in cui si liberarono dal cancro sovietico. Il sangue delle rivolte di Budapest e di Praga, ma anche quelle di Trieste (se vogliamo inaugurali e prototipo di tutte le altre), in quel evento catartico dovevano trovare finalmente giustizia. E se è innegabile che la povertà era uno dei drammi principali che vivevano le genti dominate dall’URSS, cosa che il sistema comunicativo americano ha abilmente sfruttato, essendo il sistema del libero mercato si un prodotto del materialismo, ma evidentemente più efficace nel garantire determinati standard di ricchezza, è allo stesso modo innegabile per chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale che la gioia di chi cantava a Berlino sulle macerie del muro fosse qualcosa di radicalmente più profondo che la sterile ricerca di un maggiore “benessere economico”. A tal punto che a trentacinque anni di distanza quelle stesse popolazioni, un tempo sotto il tallone sovietico (non ci voglia male Orwell ma in fin dei conti l’unico “stivale che calpesta un volto umano” è stato proprio quello Comunista) siano vittime di scherno ed odio da parte dei progressisti, purtroppo anche Europei, solo perché riluttanti ad accettare le sovversioni che essi propinano. Popolazioni ancora legate, seppur nei limiti di governi propagandati dai loro nemici come retrogradi e reazionari ma in realtà falsamente alternativi, ai principi che oggi si tenta con sempre maggiore forza di distruggere.
Un percorso di autocritica
Al netto di quanto fin qui esposto, vi è però da attuare anche un processo di autocritica. Se dopo l’”89″ ad essere sconfitto fu solo il comunismo “reale” mentre l’altra faccia della medaglia è rimasta intatta e continua a dominare – grazie anche al travaso del marxismo culturale nella società liberale – è perché ci si è sottomessi alla narrazione dominante. Dal sogno della rivoluzione, dell’Europa Nazione, tutto un mondo che aveva e ha ancora in sé enormi potenzialità ha iniziato lentamente ad accettare il modus operandi del nemico in quanto a modus cogitandi. Il “sogno europeo” venne regalato ai progetti dei nemici atavici dell’Europa, che oggi per assurdo sono percepiti come i suoi paladini, ma che rappresentano soltanto lo strumento per tenere intatto lo status quo, ovvero un’Europa sconfitta e disunitamente “unita” da trattati soprattutto economici. Chi avrebbe potuto opporsi non ha elaborato dottrine rivoluzionarie, bensì sterili antitesi, rinunciando a ciò che era la sua stella polare e diventando assertori di una logica suicida: ”se i nostri nemici si fanno promotori dell’Europa, noi allora dobbiamo essere coloro che ambiscono ancora di più alla sua divisione”. Assecondando – per assurdo – proprio ciò che aveva distrutto e depauperato quelle stesse Nazioni, ovvero la prassi “dividi et impera” decisa a Yalta. Insomma, proprio grazie alla mancanza di una macro-unità europea, la “logica di Yalta” ha trionfato sulle Nazioni, esattamente come oggi vengono soffocate dalla logica politico-filosofica di “fine della storia“, che ci fa percepire di essere “fuori dai giochi” e che purtroppo abbiamo profondamente interiorizzato, consentendo di fatto ai grandi eventi di dominarci. Immigrazione, guerra, denatalità, ambiente: tutte sfide che vengono recepite passivamente dalle Nazioni europee, o tutt’al più come imposizioni dall’alto ergo come scarica barile. “Un ragionare da mercanti“, come lo avrebbe definito Sandro Pertini (che evidentemente rimase un serio socialista) che già al Consiglio d’Europa di Strasburgo del 27 aprile 1983, disse chiaramente: “L’Europa dunque non è più un mito, un sogno, una stella che brilla e orienta da lontano e – direi quasi – neanche un ideale, ma una ferrea necessità. Qualcosa che sta non fuori ma dentro di noi. È, se volete, l’ideale necessario dei tempi moderni“. Invece no, l’Europa è sia un mito che un destino, un sogno ed una “ferrea necessità“. Ma se non vi piace Pertini possiamo usare le parole di un altro “serio socialista, il cui nome lasciamo all’intuizione del lettore, ma che verso la fine della sua esperienza politica aveva ben chiara una cosa: “Vedo la salvezza dell’Europa soltanto in un’unione socialista di tutti gli Stati europei. Ma certo non del tipo della Società delle nazioni, che fu e sarà sempre fuori dalla realtà“.
Una nuova promessa
A distanza di trentacinque anni dalla caduta del muro di Berlino, però, dobbiamo coltivare una nuova promessa. Alla luce di un quadro che non è assolutamente roseo e ben consci degli errori commessi fino ad oggi, gli europei rivoluzionari e identitari devono rendere giustizia a chi lo scorso secolo spese il proprio sangue per l’unità europea all’insegna della terza via. Come? Invertendo totalmente la rotta e approfittando senza remore di ogni contingenza possibile, anche e soprattutto se proveniente dal nemico, per fare ciò che lui ha fatto fino ad ora, ovvero convertire ogni occasione in qualcosa di utile al raggiungimento del proprio fine. Solo nella tensione verso l’unità europea e solo dal proseguimento di quelle che furono le aspirazioni del secolo scorso, che sarà possibile dischiudere un nuovo orizzonte storico di libertà, una nuova alba. Soltanto cavalcando la volontà di unificare maggiormente l’Europa e andando oltre, tanto sugli egoismi delle singole nazioni tanto sulle “ragioni dei mercanti”, che essa potrà essere poi come noi la vogliamo. Soltanto invertendo lo schema e facendosi promotori di un nuovo progetto imperiale europeo potrà essere sconfitta la piovra marxista, materialista e progressista che da Ovest, da Est ma anche e soprattutto dall’interno, continua a tenere gli europei al giogo. Come ci insegna Julius Evola, se l’Europa è la prima civiltà ad essere entrata nel processo di decadenza, sarà anche la prima ad uscirne. Non possono bastare mezzo secolo di degenerazioni e tirannia per seppellire una civiltà che ha sulle proprie spalle millenni di storia, ma che deve allo stesso tempo sapersi “alleggerire” per poter procedere speditamente: evidentemente anche “troppa memoria” è un fardello incapacitante. Se si saprà lottare con coraggio e intelligenza, l’Europa nascerà: nuova, mai vista prima. Effettivamente non importa nemmeno quando ciò avverrà e chi sarà il testimone di tale risultato. A contare, come sempre, sono le qualità del carattere che vanno risvegliate dentro di noi e in chi ci sta intorno, perchè quest’Europa che-ancora-non-c’è non sia solo un vaso, un involucro bello ma vuoto, ma la palestra per un’aristocrazia rivoluzionaria (una futura classe dirigente) formatasi nelle lotte culturali, sociali, spirituali, politiche e metapolitiche che ci attendono.
Ferdinando Viola