Roma, 11 set – Negli scorsi giorni, a Milano, è stata intitolata una piazza, alla presenza del sindaco Sala e di pochi altri, a Giovanni Pesce, comandante ed organizzatore di GAP, noto per la spietata risolutezza con la quale adempieva al suo compito, consistente prevalentemente nell’assassinare a sangue freddo, colpendoli alle spalle, esponenti fascisti della RSI a lui sconosciuti (dei quali, cioè, non era in grado di stabilire nemmeno la presunta “colpevolezza”) sulla base di un ordine di Partito. Antesignano, insomma, del Sergente Shaw del noto film “Va e uccidi”, con un’altra singolare analogia: il suo mito è stato costruito, come per il Marine della pellicola, sulla base di un “condizionamento” del quale siamo stati vittime tutti.
Qui si farà riferimento ad un solo episodio, relativo alla sua permanenza a Torino, durata dai primi di dicembre del ’43 (dopo alcuni precedenti fallimentari tentativi di altri di costituire una colonna partigiana in città) a giugno dell’anno successivo, quando viene allontanato e trasferito a Milano. In circa cinque mesi Pesce, già rodato dall’esperienza della guerra di Spagna, organizza un gruppo GAP (abbastanza raccogliticcio, come i fatti dimostreranno), ma, soprattutto, si mette in mostra con una serie di esecuzioni condotte personalmente, delle quali due particolarmente “significative”.
Il 23 dicembre tocca al fascista Aldo Morej, che viene prima colpito, nel suo negozio di orologiaio, da tre proiettili alle spalle, mentre volge la schiena alla porta, e poi finito con un colpo alla testa, dopo che, in un estremo sforzo, è riuscito a girarsi per gridare “bastardo” al suo assassino. Il 31 marzo dell’anno successivo è assassinato da Pesce, accompagnato da un altro, Ather Cappelli, direttore della “Gazzetta del Popolo”, mentre curvo verso il sedile dell’autovettura che lo ha accompagnato a casa, sta raccogliendo carte e fogli del giornale, tra i quali, probabilmente, la bozza dell’articolo che ha iniziato per l’edizione del giorno dopo, il cui titolo così comincia: “Amore dove è odio”.
Ho parlato prima di gruppo “raccogliticcio”, che Nicola Adducci, in un lungo articolo (che farà da “traccia” a questo pezzo) pubblicato sul numero 4/2012 di “Studi Storici”, l’insospettabile rivista dell’Istituto Gramsci, non esita a dire composto da: “diversi giovani di borgata, certamente coraggiosi, ma non politicizzati, che vivono vite difficili ai limiti della legalità e talvolta anche oltre”. Forse su quel “coraggiosi” ci sarebbe da fare la tara, perché alla prima azione “vera” ordinata da Pesce, che comporta, cioè, uno scontro a fuoco, il gruppo di tre componenti fa una pessima figura, fallisce, volge in fuga, subisce due arresti, vede uno dei catturati trasformarsi in delatore, con conseguenze tragiche per l’unico scampato, Dante Di Nanni.
Tutto avviene la notte del 16 maggio, quando tre gappisti provano a far saltare in aria i trasmettitori del “Centro di disturbo delle trasmissioni radio alleate” organizzato dalla RSI nella zona delle basse del torrente Stura. Non proprio un obiettivo di primaria importanza militare, come si vede, ma fallito da subito: uno dei Carabinieri di guardia dà l’allarme, i tre terroristi si danno a fuga precipitosa, lasciano l’esplosivo sul posto e maldestramente si feriscono tra loro. Il solo Di Nanni, incolume, riesce ad allontanarsi e si rifugia, arrivandovi verso le 9 del 17, nell’appartamento-base di via San Bernardino. E qui trova il nostro Pesce, “comandante” che non ha partecipato all’azione (ma, forse, vi ha assistito, in un ruolo non programmato e non realizzato di copertura). Tra i due la situazione si fa convulsa: se si sentono al sicuro, perché convinti della morte degli altri partecipanti al fallito attentato, sono preoccupati dalla necessità –è sempre Adducci a scriverlo- di “proteggere il giovane (Di Nanni ndr) e l’intero sistema GAP dalle critiche e dai provvedimenti disciplinari che il Comando Generale (delle Brigate Garibaldi ndr) potrebbe prendere”.
Ciò che succede dopo è stato coperto da un velo di omertà: nella serata Pesce (e con lui il sopraggiunto Romano Bessone, commissario politico dei GAP) lasciano l’appartamento, dove resta il solo Di Nanni, che si troverà così a dover fronteggiare la successiva incursione fascista, resa possibile dalla delazione di uno degli arrestati, e che gli costerà la vita. A quel punto, l’unica preoccupazione di Pesce è quella di salvaguardare la sua posizione, legandola a quella del caduto, con l’unico obiettivo di “aggiustare la verità non più solo per Di Nanni, ma anche per l’intero GAP”. Si inventa così la storia del giovane ferito nello scontro al “Centro di disturbo” (e, per questo, lui si sarebbe allontanato da via San Bernardino per cercare un medico), e, soprattutto costruisce il mito di un Di Nanni che, per non arrendesi, si lancia nel vuoto salutando a pugno chiuso, mentre in realtà, il giovane viene raggiunto da un colpo di moschetto mentre, nascosto –sfruttando l’esile corporatura e reggendosi appoggiato alle pareti- nella cappa della pattumiera, invano urla: “Non sparate, non sparate, vengo fuori”. Ciò nonostante, nelle file partigiane, non tutti ritengono il capo gappista esente da critiche per lo svolgimento dell’intera azione e per il comportamento successivo. Dopo 15 giorni, infatti, egli viene mandato via da Torino, mentre Bessone (l’altro “allontanatosi” per tempo dall’appartamento-base) è comandato a Novara. E così finisce la storia del GAP torinese.
Ho parlato prima di “omertà”, ed è sempre in Adducci che trovo una conferma: “Nata per ragioni interne ai rapporti tra Pesce e i dirigenti della delegazione piemontese delle Brigate Garibaldi, la dimensione mitica diventa ben presto una consapevole scelta politica che finisce per tenere uniti anche nel dopoguerra i vari attori”. Sì, perché anche questo va detto a proposito di Pesce, e cioè che egli fu sempre il miglior propagandista di se stesso. Un autore che certamente non gli è ostile, Santo Peli, ha scritto nel suo “Storie di GAP”: “La prosa a volte allusivamente rapsodica, spesso ellittica di Pesce fornisce indizi, suggestioni, brandelli di informazione, ma non permette di farsi un’idea chiara”… un po’ criptico, ma sostanzialmente vuol dire che spesso mente. O meglio, si “fa aiutare” a mentire. Il prolifico scrittore di almeno sette libri autoelogiativi nel dopoguerra, così scrive, in una lettera del 19 gennaio ’45, che riporto (prendendola, in stralcio, dal citato volume di Peli) esattamente com’era, errori compresi:
“Al Triumvirato di Partito della Lombardia, accingendomi a meter sulla carta queste parole…nella mia lunga esperienza in questo lavoro (allude alla sua attività di gappista ndr) ho potuto costatare quanto segue: mancanza di serietà e di senzo di responsabilità degli organi direttivi sul lavoro di reclutamento…non si riusciva a mettere assieme una diecina di elementi cosciente per la continuità dell’azione….
Un’altra deficienza è stata quella degli alloggi: forse si avessimo avuto alcune case a disposizione….se noi lasciamo i GAP nei loro abbiente, dopo un po’ di tempo tutto il rione in dove stano vengono a sapere cosa fanno…l’unica casa che la Federazione mi hanno passato, quando sono andatto a vederla c’era la polizia….
Anche sul lavoro politico è stato trascurato dal P al cento per cento. Posso dire da quando lascia Torino, è arivai a Milano ho partecipato ad una sola riunione politicche durò circa 10 minuti (forse i GAP non sono menbri del P)….
Io mi sembra che c’è la tendenza nei settori di impedire che gli elementi migliori vengono nei GAP…ma anche da parte vostra c’i dovrete venire incontro
19/1/1945 Visone saluti fraterni”
Il “dirigente d’azienda” Beppe Sala, temporaneamente Sindaco di Milano, tutto questo non è tenuto a saperlo. Però, poteva risparmiarsi di dire, alla cerimonia di inaugurazione dalla quale siamo partiti: “Pesce oggi sarebbe preoccupato… c’è questa rinascita pericolosa delle ideologie di estrema destra”. Cialtronerie nel paese di Cialtronia…
Giacinto Reale