Milano, 15 ott – Almaviva ha fatto un passo indietro. Nella nota del colosso dei call center si apprende che “la società, consapevole della complessità della situazione, accoglie oggi con responsabilità l’appello del Governo a sospendere le misure finora adottate, in attesa dell’incontro in sede ministeriale, previsto nei prossimi giorni, per la necessaria definizione di un’intesa che garantisca l’indispensabile equilibrio del sito produttivo”.
Cerchiamo di comprendere meglio l’accaduto. Con una lettera datata 11 ottobre l’azienda aveva comunicato ai lavoratori del call center di Almaviva Milano il trasferimento nella struttura di Rende (Cosenza). Al momento la comunicazione è stata ricevuta da sessantaquattro dei 500 dipendenti della sede meneghina Il trasferimento sarebbe avvenuto dal dodici al tredici novembre. Sembrerebbe una candid camera, ma i dipendenti non l’hanno presa bene. Parliamo di lavoratori con un salario che varia dai settecento ai mille euro al mese. Certo al sud il costo della vita è più basso, ma l’inflazione andrebbe calmierata con strumenti diversi. L’intervento del governo, con il niet del ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda, ha fatto desistere l’azienda dalle sue intenzioni. Un lieto fine da libro Cuore? Calenda, per un attimo è tornato bambino, quando recitava nell’omonimo sceneggiato televisivo diretto dal nonno Luigi Comencini.
Torniamo ora alla triste realtà dei giorni nostri. Davvero qualcuno pensa che Almaviva non avesse messo in conto un finale come questo? Difficile da credere. Stiamo infatti parlando dell’azienda che, a dicembre scorso, ha attuato il più grande licenziamento di massa dagli anni Settanta in poi (1.666 lavoratori sul sito di Roma). Come si legge nella nota i provvedimenti sono solo sospesi. In ogni trattativa che si rispetti ognuno chiede cento se vuole ottenere cinquanta e non viceversa. In questo caso, inoltre, la società ha voluto fare una rappresaglia (al momento solo sulla carta) sui dipendenti della sede milanese. Vediamo perché. Dopo la conclusione di una commessa importante come la gestione del call center di Eni, che occupava 110 dipendenti, Almaviva ha proposto un accordo che prevedeva cassa integrazione a zero ore, straordinari non pagati, controllo a distanza individuale e più rigidità nella gestione dei turni. Il 75% dei dipendenti ha respinto l’accordo. In questa partita a scacchi ovviamente il call center doveva lanciare un segnale non solo ai lavoratori ma anche al governo. Ecco perché hanno ritirato il provvedimento solo poche ore dopo la dichiarazione fatta dal ministro. Alla prima occasione utile Calenda si ricorderà di questo “gesto di responsabilità”.
I lavoratori di Almaviva sono peraltro in buona compagnia. Infatti, sono ancora 162 i tavoli di crisi (che riguardano un totale di quasi 148000 persone) aperti presso il ministero dello Sviluppo economico. Questo è quanto ha rivelato il responsabile dell’unità che gestisce le crisi aziendali presso il Mise, Giampietro Castano. Il dirigente ministeriale, interpellato dall’Ansa lo scorso agosto, ha spiegato come i numeri non siano aumentati rispetto all’anno passato, ma “la situazione è un po’ più complicata, o perché si tratta di vertenze che si sono incancrenite nel tempo, o perché il contesto degli ammortizzatori sociali è più debole e questo pone la prospettiva che ci siano licenziamenti”. Insomma, si naviga a vista. E non potrebbe essere altrimenti. Quando manca la politica industriale, i fallimenti del mercato vengono pagati dall’intera collettività.
Salvatore Recupero