Roma, 25 ago – Era il 12 giugno del 1804 quando Napoleone Bonaparte emise il celebre editto di Saint Cloude. Il decreto sanciva la chiusura di tutti i cimiteri cittadini e imponeva che ogni sepoltura fosse posta fuori dall’area urbana, in un luogo arieggiato, soleggiato e delimitato da mura. La legge, entrata in vigore in tutto l’impero napoleonico, segnò la nascita del cimitero moderno.
Il costituito Regno d’Italia, sotto la diretta influenza francese, non fu da meno e il 5 settembre 1806 emanò l’editto della “Polizia Medica”. La notizia fece molto scalpore nel dibattito politico ed intellettuale dell’epoca, già alimentato da Ugo Foscolo con “dei Sepolcri” e da Ippolito Pindemonte con “i Cimiteri”.
La città di Bologna anticipò entrambi gli editti. Qui infatti già esisteva una struttura cimiteriale in linea con le direttive di Saint Cloud, aperta nel 1801 nel vecchio monastero certosino di San Girolamo di Casara, inaugurato nell’anno 1350 e soppresso dai francesi nel 1796. Fu il primo complesso cimiteriale moderno della storia, quello che divenne noto come il “Cimitero Monumentale della Certosa di Bologna“.
In linea con i canoni di Saint Cloud, inizialmente ogni tomba doveva essere uguale, fatta eccezione per i personaggi più illustri che potevano avere un epitaffio. Bologna costituiva un’eccezione. Mentre in città come Milano anche grandi uomini come Giuseppe Parini giacevano senza tomba, nella città emiliana si diffuse una nuova tecnica di sepoltura: i sarcofagi venivano murati nelle celle dei chiostri mentre le pareti edificate venivano dipinte.
Alla fine dell’impero napoleonico, per la popolarità raggiunta tra i bolognesi, le autorità pontificie riconfermarono l’area come cimitero. L’area fu così di nuovo consacrata. Si abbandonarono le tombe dipinte per tornare alle tradizionali statue in gesso o marmo per i più ricchi. Molteplici furono le opere in stile neoclassico, così le ex celle dei monaci certosini si riempirono di vecchi saggi con la barba, di muse piangenti, di allegorie mitologiche e personificazioni di valori.
Espressione della tendenza dell’epoca fu la cella del generale Giuseppe Grabinski. Patriota polacco, ex ufficiale napoleonico deluso che, trasferitosi nel capoluogo emiliano, nel 1831 partecipò come ufficiale alla fallita rivolta della città per l’unità d’Italia. Amatissimo dai bolognesi, nella sua statua fu rappresentato come un valoroso generale romano.
A seguito dell’unità d’Italia divenne importante per la Certosa di Bologna la figura di Vincenzo Vela. Egli fu uno scultore italo-svizzero che, con la sua arte, rese omaggio a molti degli eroi italiani.
Nell’ambito bolognese, un esempio fu la tomba di Letizia Murat, del 1864, la defunta figlia di Giacchino Murat. Per volontà della stessa fu sepolta sotto la statua del padre. Costui era stato un grande generale, amico di Napoleone, il quale lo fece re di Napoli. Dopo Waterloo Murat si adoperò per conseguire l’unità d’Italia, così guidò una spedizione anti-borbonica che si concluse con la fucilazione di lui e il suo seguito, con il relativo abbandono dei corpi in una fossa comune.
Altra opera emblematica fu la statua posta al centro della cella Gregorini-Bingham, del 1871, famiglia benestante ma di estrazione mazziniana, che generò una lunga stirpe di rivoluzionari e patrioti. La statua suscitò enorme scalpore: non si era mai visto qualcosa di simile. Il soggetto scelto non era una vedova piangente o un angelo che trasportava un’anima in cielo, ma una ribelle desolata, perché sconfitta, anche se pronta a rialzare la testa da un momento all’altro. Il titolo scelto fu “Italia desolata”, a rappresentare lo spirito di un popolo appena uscito sconfitto dai moti degli anni ’20, ’30 e ’40 dell’800.
Nei primi del ‘900 fu invece di grande importanza la figura di Pasquale Rizzoli, bolognese, grande esponente dell’arte liberty. La sua opera certosina più celebre fu senz’altro il bronzo della cella Magnani, del 1906, dove modellò la figura di un angelo che trasportava l’anima del defunto in cielo, capolavoro dell’arte liberty.
Nel 1901, fu inoltre eretto il memoriale ai caduti bolognesi per l’unità d’Italia. L’opera, dello scultore e rivoluzionario bolognese Carlo Monari, doveva essere inizialmente posta in piazza 8 Agosto, dove venne invece scelta un’altra opera del Rizzoli. L’autore scelse di raffigurare un leone morente, lo scolpì nell’atto di ruggire dopo avere vinto un’ultima battaglia, anche se a costo della sua stessa vita. La statua fu giudicata inadatta a celebrare una vittoria, ma ideale al fine di ricordare i caduti, il calco fu quindi posto in certosa.
Sempre nel ‘900 fu costruito il chiostro VI, nel quale gli imponenti portici lo fecero sembrare costruito nella gloriosa epoca della Roma imperiale. I lavori, iniziati nel 1900, furono ultimati nel 1934. Nel 1932 al centro dell’area furono poste le salme dei martiri della rivoluzione fascista, nel 1933 fu invece edificato il sacrario per i caduti della grande guerra, costruito interrato con un progetto che vedeva le due entrate poste ai lati del monumento agli squadristi, sorvegliate da due statue di soldati.
Di fronte al chiostro si trova “Campo Carducci”, ovviamente per la presenza del sarcofago del vate e patriota premio nobel per la letteratura.
Diverse personalità, anche internazionali, visitarono la Certosa di Bologna, tra le quali Charles Dickens, Stendhal e Sigmund Freud. Tutti questi rimasero profondamente colpiti dal luogo e dall’arte in esso contenuta.
Giacomo Morini