Roma, 2 lug – L‘infantilismo ideologico domina la scena. Non importa di quale schieramento vi troviate: certamente, se avete la disgrazia di risiedere in quello dissidente (o sedicente tale) l’intensità con cui questo astruso fenomeno si manifesterà sarà molto più forte. Questo perché, banalmente, nel campo liberal-progressista ci sono meno motivi per essere infantili: uno su tutti, quello di governare la società e la cultura anche se non si vincono le elezioni. Unitamente a un ruolo di guida distruttiva della Nazione in corso per lo meno quarant’anni. Di conseguenza di ragioni per “sbarellare” rispetto agli obiettivi preposti (l’assoluto annullamento dell’Italia e del suo popolo), ce ne sono molti di meno. Si tratta di una guida a cui le presunte “dissidenze” però spesso e volentieri si accodano, si sottomettono, magari trovando pretesti, cavilli, ideali o forme dialettiche atte a nascondere la verità.
L’infantilismo ideologico e il mondo statico
Berto Ricci ci insegnava quanto fosse l’uomo stesso a costituire il nerbo della rivoluzione. Solo che nel nostro caso l‘unità umana è ridotta a quella di un essere non pensante, nella migliore delle ipotesi interessato solo a un mi piace in più su Facebook o a fare un pienone di “prestigio” durante la presentazione di un suo libro. Ci sono, ovviamente, le eccezioni, come in tutti i gruppi umani. Ma le eccezioni ci interessano poco. Perché il gruppo umano – e questo ce lo insegnava un altro nome importante, quello di Emile Durkheim – è ciò che plasma, in senso olistico, gli individui e la società. Senza entrare nell’eterno dibattito tra olismo e individualismo tipicamente sociologico, basti pensare che in questo frangente le eccezioni non sono in grado di generare inversioni di tendenza, almeno per il momento.
Di conseguenza ne menzioniamo l’esistenza per dovere di onestà intellettuale e nulla più. La situazione del pensiero culturale è stagnante. Sembra impossibile ragionare al di fuori dei classici steccati, anche se molti di essi non valgono più nel mondo presente, quello delle superpotenze. Vale per qualsiasi direzione ideologica: che siate inclini al filo-americanismo come al filo-russismo, che siate più vicini o meno ai palestinesi o che siate difensori degli ucraini o dei cinesi. In numero de L’universale del 1935, lo stesso Ricci parlava di “intelligenza rivoluzionaria”, intesa come capacità di trascendere dalle etichette, pur inquadrandola assolutamente come “intelligenza fascista”. In quello scritto, Ricci ci ricorda – e dovremmo tenerlo a mente ancora oggi – come le parole destra e sinistra “nel Fascismo non hanno senso”, tuonando (già allora!) con chi, in nome di una caratteristica magari seducente (ad esempio, la forza di un governo) si lasciava tentare quasi dal riabilitare alcuni reazionari ottocenteschi.
Ebbene, oggi viviamo uno strambo modo di interpretare il reale come se fosse ancora quello novecentesco: mentre soffochiamo tra i suoi tentacoli, ci lasciamo trascinare da antipatie su ideologie più seppellite della mia povera nonna, inquadriamo Stati ad esse succedute come portatori (ancora!) del loro defunto messaggio, neghiamo senza alcun tipo di eccezione la possibilità di muoverci dialetticamente nella quotidianità.
La schiavitù intellettuale, prima ancora che pratica
Siamo tutti schiavi di fatto, ma tra noi abbondano anche gli schiavi intellettuali. Perché tra le due categorie c’è una differenza: di fatto siamo tutti prigionieri, c’è poi chi è in gabbia anzitutto nella calotta cranica. Per infantilismo ideologico o per malafede non è questione che possiamo stabilire con certezza. Siamo una colonia americana (sebbene di tipo differente da quelle del passato, ma nei fatti una colonia, subordinata e schiava) ma per noi resta più importante guardare alla forza deflagrante (spesso presunta) di chi in casa nostra non ha alcun potere, come la Cina o a maggior ragione la stessa Russia.
Invece di compiere ogni sforzo possibile per ragionare con chi nella nostra sfera d’influenza subita non rientra, rifiutiamo perfino l’idea di “trattare”, lasciandoci confondere da ovvietà assolutamente inutili per il nostro interesse nazionale: cosa dovremmo farci con il fatto che i russi festeggino un 9 maggio 1945 che per noi significa scontatamente una sconfitta? Non è che sbattendo i piedini si cambino le propensioni nazionali di ciascuno, italiane, russe, americane, cinesi o di chi meglio vi aggrada. La natura vorrebbe che provassimo ad avviare qualsiasi operazione per diminuire il più possibile il portato delle catene politiche ed economiche che ci tengono in gabbia. Nessun medico ci impone di stare a guardare i festeggiamenti altrui. Avremmo peraltro i nostri, molto più urgenti, di cui discutere, su tutti il fatto di celebrare ancora quello scempio infame del 25 aprile, che per i russi, i cinesi o gli americani non rappresenta nulla ma per noi sì, e nel senso peggiore interpretabile.
Poi c’è un ultimo appunto da menzionare: l’interiorizzazione dell’inferiorità italiana. Ci sentiamo così inferiori che per noi non essere sottomessi agli americani e “smuovere” una catena così gravosa significherebbe diventare matematicamente schiavi dei cinesi, dei russi o di chi dovesse sopraggiungere. Un approccio da Nostradamus dei poveri francamente ridicolo. Primo perché trattare per ricavarne un profitto non significa sottomettersi, secondo perché lo stesso approccio denota un’incapacità di rischiare che ha del patologico (se non si pensa di poter fare una mossa per i dubbi che riguardano i nostri interlocutori, non si potrà che restare immobili per sempre), terzo perché un tale atteggiamento non pressupone neanche che siamo un popolo, ma un gruppo gigantesco di ritardati mentali, totalmente inabili di esistere nel reale. E così, visto che i cinesi potrebbero fare i loro interessi a nostro discapito (che strano!) siamo pronti a rimanere incatenati a Washington per sempre. Chi ragiona in questo modo è anzitutto debole, poi complice: di un Paese che non avrà mai la possibilità, anzitutto mentalmente, di iniziare a guardarsi o anche solo a immaginarsi “più libero”. In questo caso, l’infantilismo ideologico si tramuta in qualcos’altro che espresso senza mezzi termini per quello che è: un handicap. Simile a quello dell’antifascismo, probabilmente una conseguenza diretta. Nel caso sia voluto, un tradimento. Non abbiamo gli strumenti per capire quale delle due alberghi in ciascuno di noi, fatto sta che il risultato è drammaticamente lo stesso: la paralisi di questa povera Nazione.
Siamo italiani
Abbiamo fatto nascere spontaneamente una Nazione dalla lingua letteraria pressoché unica senza uno Stato che la forgiasse presso le èlite della comunitù. Abbiamo creato il Fascismo, approccio ideale imitato con differenti prospettive da chiunque. Abbiamo generato uno dei modelli socio-economici più studiati nel resto dell’Occidente. Noi siamo gli ingegneri dell’Iri, i costruttori dell’Eur, noi abbiamo fondato l’Eni, l’Olivetti, la Ferrari e il sistema sanitario nazionale. Dalle nostre viscere è nata la trasmissione radiofonica.
Siamo italiani, nel bene e nel male. A dirla tutta, moltissimo nel bene e pochissimo nel male. È tempo di superare certe sciocchezze. Guardando al futuro con maturità e serietà. Non abbiamo il tempo di metterci a riflettere sulla possibilità che Volodymyr Zelensky sia un cocainomane, sul perché la Russia festeggia la nostra sconfitta nella seconda guerra mondiale (altre considerazioni stupide e ovvie?) o i motivi che spingano la Cina a cannibalizzare i nostri mercati. Se Pechino riesce a farlo è anche e soprattutto perché perfino della nostra mancanza di indipendenza ci prendiamo il peggio: sottomissione totale a Washington, economica come socio-culturale, incapacità di trattare con chi è all’esterno dell’impero americano. Questo perché con chiunque sia al di fuori della sfera di influenza statunitense a cui siamo sottoposti non riusciamo nemmeno a trattare, a differenza di Stati molto più ininfluenti del nostro. Siamo italiani, ma la nostra generazione è fatta di bambini. Educati proprio da quell’infantilismo ideologico che è il cuore della riflessione odierna: un approccio mortifero che non ci permette di guardare avanti, di osservare tutto ciò che possa essere utile a liberarci almeno di qualche catena. Perché gli schiavi di cui sopra dominano la scena. Mediocri che mettono il petto in fuori solo per ego o per suggestione.
Superiamo l’infantilismo ideologico e diventiamo finalmente uomini. Maturiamo, finalmente. Puntiamo dritti al bene di questo povero Paese e ragionìiamo solo in quei termini. Io non sono nessuno. Sono solo uno scrittore che umilmente prova a scuotere, fino a quando gli sarà concesso farlo.
Stelio Fergola