Roma, 16 nov. – Il mese di Novembre era il nono mese del vecchio calendario romuleo e sebbene senza apparenti festività di rilievo, ne aveva una alle Idi dedicata ad una divinità molto particolare: parliamo di Feronia. Secondo Varrone questa divinità sarebbe arrivata a Roma tramite i Sabini dopo che i Romani li avevano sottomessi definitivamente nel 290 sec a. C.; aveva un tempio in Campo Marzio e ricerche archeologiche volute nel 1929 per intervento diretto dell’allora capo del Governo Benito Mussolini, hanno permesso di riconoscerlo nell’area archeologica dell’attuale largo Argentina individuato nell’edificio denominato “C”. Ovviamente parliamo di una Roma all’epoca a mala pena affermata sulle popolazioni circostanti e dove il Campo Marzio era più che altro un terreno agricolo distante dalla città e probabilmente boscoso, soggetto ad inondazione da parte del Tevere e, a dirla tutta, un territorio ancora soggetto alle continue scorribande da parte delle popolazioni limitrofe.
Lì era di fatti eretto anche uno dei due templi dedicati a Marte, ovviamente fuori le mura, posto a sentinella della città. Sebbene Feronia nell’Urbe non avesse un posto di rilievo tra le divinità maggiori, aveva comunque un largo seguito tra le altre popolazioni del centro della penisola italica, di cui forse il più importante a Capena ai piedi del monte Soratte, nel punto di incontro tra Sabini, Etruschi e Latini. Presso questi templi ogni anno i suoi adepti si riunivano per omaggiare la dea attraverso un rituale in cui era previsto il camminare sopra carboni ardenti ma, come dicono gli autori antichi, “senza ricevere danno”. Tipico di tutte le aree a lei sacre era inoltre la presenza proprio di un bosco sacro (Lucus) e di una fonte d’acqua, probabilmente con funzione lustrale. Nella stessa Roma, in Campo Marte, il suo tempio doveva sorgere, a quel che si sa, nei pressi di un Lucus.
Per poter comprendere chi fosse Feronia e quale aspetto presiedesse nella vita del cittadino romano, è necessario fare una digressione per conoscere alcuni meccanismi della religio romana. Per quegli uomini la realtà circostante era di fatto espressione di una realtà parallela e sottile, per cui la prima stava al mondo fisico come la seconda stava al mondo metafisico. Ogni aspetto della vita, pubblico e privato, era organizzato in maniera tale che i due ambiti fossero coincidenti. Fondamentale era l’esperienza interiore non certamente intesa come smania o brama di fare cose nuove, come può essere per gli uomini moderni, ma piuttosto intesa come conoscenza, ovvero la chiara comprensione dei meccanismi che stanno “dietro” i fatti ordinari. Tutto questo perché la separazione del mondo ordinato da quello caotico, è prima di tutto un fatto sottile e poi materiale, non si può organizzare un mondo fuori se prima non si ha la chiarezza dentro di sé dell’ordine e delle gerarchie.
Ma cerchiamo di capire chi fosse Feronia partendo dall’analisi del nome. Il nome è potenza, il nome richiama il senso di “numen”, che era proprio un termine con cui i Romani definivano le forza divine. Feronia contiene la radice fer– caratteristica di tutti i nomi che richiamano ad ambienti selvaggi. La lingua moderna conserva tracce di questa radice nella parola “fiera” e “ferino” riferito ad animali selvatici e la cui etimologia è proprio “fera”, che a sua volta non può essere distaccato da ferus che significa “indomito, selvaggio, crudele”. Molte lingue del ceppo indoeuropeo hanno conservato il ricordo comune del senso di questo termine: il dialetto eolico greco lo chiama PHÈR, l’attico THÈR e ancora lo slavo antico ZVERI, fino al tedesco con T(H)IER = animale. In definitiva si ha a che fare con un ambiente selvatico e non a caso i suoi luoghi di culto sono sempre stati fuori dai centri abitati, in zone boscose o comunque al limine di esse: è una divinità dell’ager in contrapposizione all’urbs.
Un secondo aspetto risiede nella parte finale del nome. È risaputo che le desinenze in –ōna e –ōnia indicavano un cambiamento che era prima di tutto interiore. Conoscendo il significato portato nel nome della divinità, risulta dunque evidente come Feronia fosse una divinità che rappresentasse il limite tra il mondo agreste, selvaggio e indomato caro a Fauno e Silvano, e il mondo della coltivazione “addomesticata”, dove cioè l’uomo era riuscito ad organizzare il mondo della (propria) natura strappandola al caos, sapendole conferire un ordine ed una fruttuosità mettendo le forze ancora selvagge della Natura al servizio degli uomini. Questo ruolo “guaritore” è ovviamente da intendere nell’ottica secondo cui anche i vari malanni erano riflesso di un conflitto energetico, che avveniva dentro l’essere umano tra forze antagoniste e quindi la ricerca di soluzioni “magiche” era normale per combattere il male a quel suo stesso livello. A testimonianza dei poteri di guaritrice della Dea, gli archeologi hanno riportato alla luce in molti scavi nei pressi dei suoi luoghi di culto un gran numero di ex-voto, suppellettili votivi, figurazioni di mani, piedi, teste, occhi, bambini in fasce, e anche animali da lavoro. Per questo anticamente i medici erano conosciuti anche come stregoni, alchimisti, astrologi e conoscitori in generale di pratiche occulte.
Essendo Feronia legata al concetto di “passaggio di stato”, i Romani le attribuirono allora anche il compito di presiedere alla liberazione degli schiavi. Cosa c’entra però la liberazione degli schiavi con il passaggio dall’indomito al domato? Secondo la visione sacra che i popoli antichi avevano della vita, lo schiavo non era certo tale per motivi profani o accidentali, bensì era tale perché incapace di essere libero, autosufficiente, incapace di darsi una legge interiore e di saperla rispettare, incapace di una visione superiore del mondo e di dominio su di sé. Gli schiavi erano persone tornate ad essere selvagge, incivili in quanto incapaci di rispondere autonomamente alle leggi della cives, abbrutite e tornate allo stato animale. Feronia interviene in tutto questo come domesticazione dell’elemento selvaggio presiedendo religiosamente ad un mutamento. Per questo la dea esercita la tutela sulla liberazione degli schiavi: per Servio è “libertorum dea” e che nel suo tempio gli schiavi, con la testa rasata in segno di rinascita, ricevevano il pileum che era il berretto degli uomini liberi: lo scrittore ci dice che nel tempio di Terracina si trovava un sedile di pietra su cui i richiedenti libertà sedevano e su cui era scritto “Bene meriti servi sedeant surgant liberi”, “Gli schiavi benemeriti seggano e si alzino liberi”.
Feronia, guardiana del passaggio, dava la possibilità di salire sul trono per quelli giunti fin lì per merito e devozione e che dovevano affrontare consapevolmente il proprio cambiamento di stato da seguaci ad artefici della propria vita. Era un terribile e spietato guardarsi dentro attraverso lo sguardo della Dea che presiedeva la soglia. Per tornare ai giorni nostri è verosimile che l’ultima volta che Feronia si sia manifestata in maniera tanto evidente fu proprio un novembre (guardacaso), nel 1928. L’allora Capo del Governo Benito Mussolini, salì le scale dell’Altare della Patria per bruciare alcune pagine del bilancio del debito pubblico: già nel 1925 si era raggiunto il pareggio di bilancio. Anche qui, con questo atto rituale, venne formalizzato con le braci un cambiamento di stato: è risaputo che il debito, cosiddetto, pubblico è uno degli strumenti con cui forze nemiche allogene facenti riferimento al mondo deforme dell’alta finanza e dell’industria riescono a tenere schiave società e nazioni intere.
L’atto di bruciare il debito è un atto altamente simbolico per tutto ciò che comporta: è la consapevolezza di aver saputo gestire autonomamente le proprie risorse e di aver potuto attuare una politica economica nazionale, autonoma e indipendente, che non deve più rispondere a creditori di nessun tipo né a influenze esterne. È il poter rispondere solo a sé stessi nel grande corpo che è lo Stato. Fu un atto potentissimo perché segnava il cambio di passo rispetto ai precedenti governi borghesi, liberali e decadenti in favore di un’altra civiltà basata su una nuova visione dello Stato, della società e del lavoro. Fu dunque un passaggio da uno stato di anonimato e di sterilità che ebbe come conseguenza la “Vittoria mutilata” di qualche anno prima, di disordini e improduttività che vide il suo apice nel biennio rosso ad una rinnovata capacità di affermazione e di normalità, di tentativo di ristabilire l’ordine e le gerarchie e l’autorità ad uno Stato (esteriore e quindi interiore) precedentemente inesistente.
Quando nel 1935 ci venenro imposte le sanzioni per la Guerra d’Etiopia, il popolo italiano rispose orgogliosamente e con grande senso di appartenenza con quello che passò alla storia come “Oro alla Patria” in cui nella “Giornata della Fede”, gli italiani, come afferma lo scrittore Enzo Biagi, “diedero vita ad una grande e spontanea mobilitazione per donare le proprie fedi nuziali e definì quei momenti come tra i più alti di patriottismo che ci sia mai stato in Italia”. Nella sola Roma furono raccolte circa 250000 anelli e circa 180000 a Milano. Il senso di ritrovata appartenenza ad un comune destino, ebbe eco anche nella generale indignazione contro quelle sanzioni ed il totale risentimento contro la stessa Società della Nazioni. Lo Stato riconosceva il contributo delle fedi d’oro donate con un corrispettivo anello di ferro, simbolo del sacrificio (sacrum facere, fare del sacro), del dono, della privazione ma anche della partecipazione alla battaglia, nonostante i pericoli e le responsabilità che ne sarebbero derivate: gli italiani furono capaci di liberarsi del loro oro personale per donarlo a qualcosa di più grande, qualcosa di cui chiaramente si sentivano parte: ci si era liberati dalla schiavitù rappresentata dall’oro per prendere parte consapevolmente al peso della sopraggiunta libertà, partecipando a questa lotta accogliendone il ferro. Ci si era liberati dalla schiavitù per anelare alla libertà. Noi, eredi di quel mondo, in questo periodo storico così caotico e disordinato affermiamo Feronia sia pronta ad essere risvegliata perché stiamo già in marcia per riportare l’Ordine.
Marzio Boni