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Francesco Cecchin: 17 anni per sempre

by Tony Fabrizio
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Roma, 16 giu – Francesco Cecchin aveva 17 anni quel 28 maggio ’79. Occhi azzurri, profondi, capelli biondi e tante passioni: il modellismo, gli amici, lo sport, la politica. Quella politica fatta di tanto coraggio. Erano gli anni di piombo, gli anni di guerra civile in cui uccidere un fascista non è reato. Militare “a destra”, in quegli anni, nel Fronte della Gioventù, anche se Francesco guardava con piacere anche a Terza Posizione, era una scelta di cuore prima che di testa. Di quel cor habeo (avere cuore) latino che la lingua italiana traduce in coraggio. Il coraggio a Francesco non mancò dall’inizio della sua militanza, dalla scelta, fino alla fine quando si portò dietro i suoi aggressori per salvare la sorella, insieme alla quale quella sera di fine maggio in cui stava andando semplicemente a mangiare un gelato. Quel coraggio che gli permise di “fregarsene” dannunzianamente delle minacce rivoltegli da Sante Moretti, il pugile estremista del Pci che lo minacciò apertamente perché Francesco aveva strappato manifesti dei compagni affissi negli spazi dedicati all’Msi. Coraggio che non ebbe però il pugile comunista che, davanti agli inquirenti, ammise le minacce, ma non quelle direttamente indirizzate al giovane missino.

Francesco Cecchin e quello “strano modo di morire”

Francesco finì scaraventato cinque metri sotto il livello della strada in uno stabile di via Montebuono 5, nel quartiere Trieste a Roma. Cranio fracassato, milza spappolata, ma mani e braccia integre: “volato sull’asfalto di un cortile con le chiavi strette in mano, strano modo di morire“. Strano come lanciarsi di testa e non attutire il colpo con le mani, né con le braccia o con le gambe.

Sembra il triste copione di altre storie di morte di quegli anni, tutte firmate dalla stessa violenza, da chiavi inglesi e dall’odio politico rosso. Tutte che hanno condotto a nessuna giustizia, ma a tante beffe. Come l’omicidio preterintenzionale (con un reo confesso!) di Carlo Falvella a Salerno fino alle condanne zero per la morte di Francesco che è caduto scappando. Già, ma da chi? E perché? La beffa a Francesco inizia con un inspiegabile ritardo nelle indagini. Francesco muore 19 giorni dopo essere stato aggredito e solo dopo la sua morte qualcuno tenterà di (non far) capire chi fossero gli aggressori. Anzi, gli assassini. Coma indotto da cui Francesco avrebbe dovuto uscire per cui non c’era fretta di interrogarlo. Evidentemente era tanta la paura che avesse fatto il nome dei comunisti che lo avevano aggredito. Ma Francesco non moriva in fretta per cui qualcuno degli aggressori tentò di entrare nella stanza dove era ricoverato per capire se lui e i suoi degni compagni diventassero assassini, ma furono fermati prontamente dai suoi camerati che non si mossero dal San Giovanni, così come accadde con Paolo Di Nella.

17 anni per sempre

Non bastò nemmeno il trasecolamento addirittura dei giudici per i quali apparve “incomprensibile la mancanza di ogni attività investigativa nell’ambito degli appartenenti alla fazione politica opposta a quella della vittima. […] La mancanza di prove in ordine al crimine commesso è con tutta probabilità da connettere a una estrema lacunosità delle indagini sotto i profili qualitativo, quantitativo e temporale”. Per poi concludere che “è convinzione della Corte che, nel caso di specie, non si sia trattato di omicidio preterintenzionale, ma di vero e proprio omicidio volontario“. Non bastò il corposo e preciso dossier di prove raccolte dai giovani camerati per riaprire il caso.

Le fumose, superficiali e ritardate indagini bastarono a cancellare i colpevoli. Bastò la falsa testimonianza di Stefano Marozza, comunista proprietario della Fiat 850 bianca da cui scese il commando di Cecchin al grido di “È lui, prendetelo!”, che disse di essere andato a vedere Il Vizietto al Cinema Ariel quando in sala non era proprio in programma quel film, a fargli guadagnare l’assoluzione per non aver commesso il fatto. Non è bastata al Viminale la battaglia condotta da autorevoli onorevoli rappresentati della cosa pubblica affinché il nome di Francesco fosse inserito tra le vittime del terrorismo. Non basta quasi mezzo secolo perché la Procura si ravveda di quelle lacunose indagini e tenti di colmare quel vuoto di verità e di giustizia. Il fatto che “non è provato che l’omicidio di Francesco Maria Cecchin sia riconducibile a un atto di terrorismo”, come scrisse la Procura di Roma, è il vero motivo del mancato inserimento nell’elenco delle vittime del terrorismo per cui nessuno prova vergogna.

Il monumento a lui dedicato in Piazza Vescovio che reca una simbolica frase di Jünger continuamente preso di mira da vandali senza dignità e senza identità – antifascisti in questo senso – è la prova provata che Francesco lotta, che Francesco vive, nonostante quarantasei anni di ombre, di silenzio e di buio contro un ragazzino che fa ancora paura per avere incarnato i 17 anni per sempre.

Tony Fabrizio

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