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Il sempreverde ricordo di Francesco Cecchin

by Tony Fabrizio
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Francesco Cecchin

Roma, 16 giu – Era il 1979. O forse il 2024. Francesco Cecchin era un giovanissimo ragazzo dalla faccia pulita, occhi azzurri e capelli biondi. Non riuscirà a diplomarsi, a causa dei giorni di assenza da quella scuola, dove spesso gli era impedito entrare. Come Ramelli. Roma come Milano. Altri, giovani come lui, futuri insegnanti non erano ancora nati quando Francesco moriva. Ammazzato.

Francesco Cecchin trova la morte

Il 16 giugno Francesco lasciava per sempre quel coma in cui era sprofondato 19 giorni prima e da cui non si riprese mai. Probabilmente avrebbe fatto i nomi dei suoi aggressori che riconobbe a bordo di quella Fiat 850 bianca intestata a Stefano Marozza che, per aver fornito versioni diverse – contrastanti tra loro – fino a quella definitiva secondo cui era stato al cinema Aryel a vedere la proiezione de Il Vizietto che quella stessa sala non aveva in programma, si guadagnò il premio dell’assoluzione per non aver commesso il fatto. Avrebbe fornito i nomi di quella gente che non gli disdegnò la visita in ospedale per assicurarsi che la morte avrebbe colto Francesco. Un omicidio, ma non si sa con chi. Ancora oggi che pure Moretti, uno dei quattro occupanti della 850, forse quello che avrebbe dato l’ordine – “È lui, prendetelo!” – è morto. Morto libero. Libero di vivere quella vita che a Francesco è stata tolta. Libero come quel diritto che ti consente persino di mandare a morte chi sta dalla parte sbagliata. Che non è quella di chi ammazza. Libero come quella concessione che ti permette di ammazzare un fascista, tanto non è reato. Francesco non era fascista, ma credeva in un’idea, anche se non credeva di diventare un eroe e di vivere per sempre.

Una giornata tranquilla divenuta infernale

Quella sera di maggio voleva solo andare a mangiare un gelato insieme a sua sorella, che pensò di preservare attirando a sé i suoi aggressori. I suoi assassini che festeggiavano nel ’79 allo stesso modo di come festeggiano nel 2024 la fine del fascismo, il 25 aprile e che, nonostante si dicono liberatori e liberati – senza il minimo rigurgito di cortocircuito – vedono ancora fascismo ovunque. Vedono coloro che hanno ancora una identità quali obiettivi da combattere ed eliminare. Sono loro che, come negli anni di piombo, ancora odiano. E l’odio si traduce inevitabilmente in omicidio. Stessa forma mentis di allora, identico modus operandi oggi. Che ti chiami Cecchin, Ramelli, Ciavatta, Recchioni non conta. Conta di essere in numero superiore, spropositatamente superiore rispetto a quell’uno individuato. Conta di sorprendere da solo il loro obiettivo. Conta di sorprenderlo da dietro. Conta di fracassargli il cranio. Ieri con una Hazaret 36, oggi con martelli e manganelli retrattili. Conta poi scappare e conta non contare mai gli anni di carcere a cui mai nessuno li condannerà. Conta non pagare mai. Conta poter contare su Soccorso Rosso ieri e sul soccorso rosso oggi. Non contano le 4 condanne e le 29 denunce, Ungheria esclusa: puoi ugualmente essere chiamato “onorevole” e rappresentare una parte degli italiani.

Francesco, e non fu il solo, fu ammazzato volontariamente allora e hanno continuato ad ammazzarlo ancora. Con il divieto di interrogarlo da parte del suo avvocato, nonostante il coma indotto, tanto si sarebbe ripreso da lì a pochi giorni, secondo il personale medico. Cosa che non avverrà mai; ammazzato con i risultati dell’autopsia prima alterati e poi ignorati. Autopsia eseguirà senza togliere nemmeno i tutti i vestiti; ammazzato con le indagini fumose e superficiali da parte degli inquirenti; con la mancata consultazione del corposo dossier redatto da parte dei ragazzi del FdG; con il diniego da parte del Viminale di inserire il nome di Cecchin tra le vittime del terrorismo; occultando la verità.

Magari, con il disincanto degli anni, con i cori isterici dei figli di papà, con il “partecipato” perché interessato silenzio istituzionale si riuscirà davvero a fare credere che Cecchin sia accidentalmente caduto da un parapetto di 5 metri e che sia caduto di testa. Che l’atterraggio di testa spiega il fatto che braccia e gambe non rechino lesioni, mentre sul corpo siano stati rinvenuti i segni compatibili di una sprangatura. Di uno stordimento. Di una esecuzione. Milza spappolata in primis. Magari non saranno nemmeno necessari 7000€ al mese per pagarsi gli avvocati quando ci si potrà avvalere dell’immunità parlamentare per non pagare. Pur di aggirare la legge, ma non l’infamia. Strano modo di vivere questo, non di morire. Seppur con un pacchetto di sigarette gettato vicino a quel corpo esanime, col cranio fracassato, ma ancora vivo. Seppur in una pozza di sangue con un mazzo di chiavi in mano, nel ’79. Nel 2024 Francesco vive ancora. Perché Francesco è primavera, Francesco è libertà. Adesso porta in mano una rosa e nell’altra la verità!

Tony Fabrizio

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