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Giolitti, uno degli uomini che fece l’Italia del Novecento

by Stelio Fergola
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Giovanni Giolitti

Roma, 17 lug – Su queste pagine, anni fa, ci eravamo posti una domanda: Giovanni Giolitti è stato una sorta di Otto Von Bismarck italiano? Va da sé che, su un argomento tanto complesso, possano svilupparsi pluralità di vedute e interpretazioni, perché il peso storico  del personaggio in questione lo rende quasi imprescindibile e, com’è naturale che sia, ancora più interessante. Comunque, il 17 luglio è un giorno importante: fu proprio in questa data mensile che, nell’anno 1928, Giolitti spirò. E con lui se ne andò il primo gigante del Novecento italiano.

Giovanni Giolitti, liberalismo “sociale”

In passato mi sono sempre concentrato nella contestazione di un approccio che ritengo sbagliato: insistere sulla differenza tra liberalismo e liberismo. Un distaccamento che, se sussiste sul piano teorico, pochissimo lo fa su quello pratico. Il liberalismo è la naturale anticamera del liberismo economico, perché consente di sviluppare un pensiero sempre più convinto della necessità di lasciare l’individuo esclusivamente a sé stesso, con la naturale conseguenza di generare tutta quella serie di dogmi che oggi ben conosciamo, da quello del mercato senza confini, alla proprietà privata senza confini, funziuonali all’assenza dei confini stessi, della globalizzazione e ovviamente dell’immigrazionismo e via discorrendo.

Ovvio che un tale processo non possa realizzarsi in un giorno, in dieci anni e nemmeno in un singolo secolo, specialmente in una società, come quella precedente alla rivoluzione francese, che non era neanche basata sulla produzione e sul profitto (specialmente prima dell’avvento del mercantilismo), figuriamoci se avrebbe potuto esserlo sull’idea di un profilo economico sociale davvero libero in ogni direzione. Guido De Ruggiero, che della storia del liberalismo si è fatto “fautore”, per così dire, sottolineava con insistenza l’assenza di una vera “mentalità del denaro” nel mondo precedente all’avvento del capitalismo.

Il problema è che questa mentalità non diventa diffusa in modo schiacciante se non ai primi decenni del XX secolo, nonostante la popolarità di Adam Smith negli ambienti colti godesse di enormi riscontri (a proposito, coincidenza interessante: oggi ricorre anche l’anniversario della morte del celebre economista scozzese). Dunque la considerazione è ovvia: il liberale è pur sempre un liberale, ma chi vive a cavallo tra Ottocento e Novecento difficilmente poteva scardinare tanto facilmente mentalità plurisecolari basate su un mondo completamente diverso. Un aspetto che mi sono sempre permesso di far notare (sebbene sia ovvio, ma evidentemente non molti vi si soffermano) è dunque che il liberale del XIX secolo sia ben altra cosa rispetto a quello del 2024. Al paragone di un uomo di oggi, il celebre Cavour si potrebbe considerare un rigido “conservatore” certamente non incline alle liberalizzazioni onnicomprensive dell’economia. Ed è esattamente per questo che Giovanni Giolitti, pur essendo un cardine del liberalismo a cavallo tra i due secoli scorsi, si insinua in quella epoca e ne é inevitabilmente il prodotto. In molti non casualmente lo hanno definito un “liberale illuminato”, dal momento che la sua attenzione al profilo sociale delle classi meno abbienti è caratteristica della mente e dell’uomo. In tal senso il paragone con Bismarck è fondato. Il grande statista tedesco fu tra i primi a costruire un impianto statale di assistenza sociale, esattamente come quello italiano, il quale nell’epoca in cui “governò” (non sempre da presidente del Consiglio “ufficiale”) promosse assicurazioni statali, tutela delle maternità e delle lavoratrici, ma anche la celebre nazionalizzazione delle ferrovie avvenuta tra il 1903 e il 1915. Insomma, dal punto di vista sociale c’è tanto. Non quanto avvenne durante la rivoluzione fascista, ma indubbiamente tanto.

Su Giolitti, che sarà timoroso nel 1914, sussiste una politica pragmatica anche di potenza verso l’esterno, con il presidente del Consiglio instradatosi nel solco tradizionale già avviato da Francesco Crispi alla fine dell’Ottocento. Sbaglia però chi dice che essa sia stata del tutto fallimentare. L’Italia, pur con le sue difficoltà, vinse una guerra, quella italo-turca del 1911-1912, che in qualche maniera rappresentò una testimonianza del “decennio giolittiano” appena trascorso: ovvero quello di un Paese che si rafforzava comunque dal punto di vista industriale e cominciava ad essere competitivo sotto quello militare. La guerra con gli ottomani venne sottovalutata: ciò che avvenne nella Grande Guerra lo avrebbe testimoniato. L’Italia dell’era giolittiana non era stata solo dei contadini, ma anche quella della nascita della Fiat. E qualcosa avrebbe voluto dire.

Giolitti, Mussolini, De Gasperi

Difficile non considerare Giolitti uno dei tre uomini che ha fatto l’Italia del Novecento. Il che ci racconta molto di quanto la politica generi da sé infinite manifestazioni e sfumature e di quanto dovrebbe interessarci solo ciò che suscita e matura dal punto di vista nazionale. I tre personaggi in questione non avevano praticamente nulla in comune, se non un aspetto: essere degli statisti e degli uomini che hanno seminato per le generazioni future. Giolitti dà la prima sterzata industriale all’Italia agricola e istituisce le prime riforme sociali, Mussolini la rivoluziona, sublimando l’epopea risorgimentale dal punto di vista culturale e costruendo un modello socio-economico che sarebbe sopravvissuto al fascismo quasi cinquant’anni. De Gasperi è l’uomo della ricostruzione e del lancio verso il definitivo boom economico.

Per molti è difficile comprendere la concatenazione tra personaggi tanto diversi, eppure c’è. Senza Giolitti non c’è Mussolini e senza Mussolini non c’è De Gasperi. È uno di quei casi in cui gli steccati ideologici sono molto pericolosi: perché impediscono anzitutto di storicizzare (un vizio di cui i maestri assoluti sono gli antifascisti) ma poi anche di comprendere le dinamiche essenziali che hanno scandito la storia di questa Nazione nel secolo scorso. Processi unici al mondo, forse perfino i più rilevanti, se parliamo della prima metà del Novecento.

Stelio Fergola

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