Roma, 17 apr – A ottant’anni dalla fine del secondo conflitto mondiale, la liturgia laica del 25 aprile torna puntuale a scandire il calendario civile della Repubblica. Le istituzioni, da sempre impegnate nella perpetuazione del mito resistenziale, celebrano la “libertà riconquistata” attraverso slogan sempre più sfilacciati: a Roma, i manifesti del Comune parlano della “libertà di amare, pensare, studiare, votare”. Ma la realtà che ci circonda sembra smentire ogni parola di quella retorica.
Il Comune di Roma e la “libertà di amare”
Ma dietro la maschera della libertà, o meglio della retorica della libertà, si cela un’intera società educata a servire. Servire le logiche del capitale globalizzato, servire l’ideologia dominante, servire un sistema che ha svuotato la democrazia di ogni contenuto reale. Altro che libertà di pensiero: l’omologazione culturale è diventata dogma. Altro che diritto allo studio: scuola e università sono l’anticamera della precarietà. Altro che voto libero: le scelte sono sempre le stesse, e tutte orientate verso un’unica direzione. Nel cuore di questa distorsione storica – la celebrazione di una sconfitta politica e militare – si annida la funzione ideologica delle costituzioni antifasciste, da sempre spacciate come argine alle derive autoritarie, ma in realtà del tutto compatibili con il dispiegarsi brutale del capitale. Quelle costituzioni, lungi dal rappresentare un limite al potere economico, restano al loro posto come feticci sacralizzati, utilizzati per giustificare e sanzionare le ingiustizie del presente. Sono i pilastri simbolici di un ordine che non si può mettere in discussione: il feticcio resta intatto, mentre tutto intorno crollano lavoro, dignità, identità, comunità. E come ogni religione che si rispetti, anche questa ha i suoi sacerdoti: accademici, editorialisti, politici, funzionari dello Stato, che ripetono con voce stanca le stesse litanie. Ogni 25 aprile ci parlano di libertà come se fosse una concessione eterna, dimenticando che quella “liberazione” ha prodotto un sistema dove la libertà reale è diventata merce rara, e dove ogni forma di dissenso viene etichettata, ridicolizzata, isolata.
Il 25 aprile è un rituale di conservazione
È in questo scenario che la celebrazione della Resistenza assume un valore paradossale: un rituale di conservazione, utile a proteggere l’ordine costituito. Il 25 aprile non è altro che un rito di legittimazione, il momento in cui il potere si autoassolve davanti a un pubblico sempre più stanco, sempre più disilluso, sempre più consapevole che i proclami non corrispondono ai fatti. Il mondo che ci è stato consegnato non è quello della libertà, ma quello dell’obbedienza travestita da scelta. E mentre si moltiplicano le celebrazioni, aumentano anche coloro che smettono di crederci. Forse è proprio da qui che può iniziare qualcosa di nuovo: non dalla commemorazione, ma dalla critica. Non dalla memoria imposta, ma dalla volontà di rompere il cerchio.
Sergio Filacchioni