Roma, 24 apr – Nella primavera del 1916, mentre l’Europa affogava nelle trincee della Grande Guerra, a Dublino risuonava un altro fuoco. Fuoco non di eserciti stranieri, ma di figli d’Irlanda armati solo di fucili antiquati e di una volontà di ferro. Il Lunedì di Pasqua, 24 aprile, un gruppo di uomini e donne — poeti, maestri, contadini, operai — insorse contro l’impero più vasto che il mondo avesse mai conosciuto. Era la Rivolta di Pasqua. E a guidarli, con il volto sereno e l’anima in fiamme, c’era Patrick Henry Pearse: il poeta martire, il pedagogo ribelle, il profeta del sangue e del sacrificio.
Pearse, la poesia della rivoluzione
Nel cuore della primavera, quando la linfa torna a scorrere negli alberi e i venti d’Irlanda profumano di torba e destino, torna a cantare il sangue versato in nome della libertà. Ogni anno, la Pasqua irlandese risuona di spari lontani e preghiere sussurrate nelle chiese, nei campi e nei cuori. Pearse non era un semplice rivoluzionario. Era lo spirito d’Irlanda incarnato in carne e ossa. Fondatore della scuola St. Enda’s, dove si insegnava in gaelico e si respirava la memoria dei Fianna, Pearse sognava un’Irlanda libera non solo politicamente, ma spiritualmente, culturalmente, linguisticamente. Nel saggio La Macchina per Uccidere (The Murder Machine), scrisse parole incandescenti contro il sistema educativo inglese, che risuonano più attuali che mai: “L’educazione dovrebbe nutrire; questa educazione serve a reprimere. L’educazione dovrebbe ispirare; questa educazione serve a domare”, e ancora “il sistema ha mirato a sostituire agli uomini e alle donne delle semplici Cose”. Una visione lucida, quasi profetica, che può essere capita solo riconoscendo quella che era la sua gerarchia di valori: per Pearse, infatti, la nazione non è solo un’entità giuridica (come predica la tradizione illuminista figlia del ’89), bensì una comunità mistica, forgiata da lingua, cultura, religione ma soprattutto dal sangue versato.
Pearse incontra Mazzini
Perché più della scuola, più della penna, deve essere il sangue a diventare verbo. Quando la Proclamazione della Repubblica Irlandese fu letta davanti al General Post Office, non era soltanto un documento politico: era un atto magico – “a terrible beauty is born”, scrisse Yeats – una chiamata alle armi e alla purezza. “Dichiariamo il diritto del popolo irlandese alla proprietà dell’Irlanda“, si proclamava. E Pearse sapeva benissimo che quelle parole avrebbero portato alla sua morte, ma sapeva altrettanto bene che solo il sangue annaffia l’albero della libertà: “Lo spargimento di sangue è una cosa che purifica e santifica… È una gioia e una forza per una nazione”. Ecco il punto cruciale di ogni rivoluzione: il pensiero che diventa azione. L’ideale che si fa carne e si offre in sacrificio. In questo, Pearse incontra idealmente un altro profeta dei popoli risorti sul cammino della libertà: Giuseppe Mazzini. Anche lui vide nell’educazione l’inizio di ogni rivoluzione. Scriveva: “Educate il popolo: senza educazione non avrete mai libertà durevole. L’educazione è il culto della verità fatto popolo”.
Educare alla libertà
Il pensiero di Patrick Pearse è una visione totale della nazione come realtà spirituale, pedagogica e sacrificale. Nei suoi scritti, l’educazione è sempre riportata al centro del progetto nazionalista e rivoluzionario: essa non deve essere una fabbrica di ingranaggi umani, ma un atto sacro di fosterage — “allevamento” dell’anima e del carattere. Proprio su questo campo viene incontro ai propositi mazziniani. La libertà non è solo politica ma interiore: è la libertà del maestro di insegnare, dell’alunno di fiorire, della scuola di essere radicata nella nazione. Entrambi i patrioti si proponevano di forgiare non sudditi, ma anime forti: “Un vero sistema educativo deve dare libertà — libertà alla scuola, al maestro… e, per quanto possibile, all’allievo”. Infatti, per Pearse, “il bambino non è materia grezza da modellare, ma una fiamma da alimentare”. Idem per Mazzini: “Libertà non vuol dire fare ciò che si vuole, ma ciò che si deve per la salvezza comune”. L’uno e l’altro credevano fermamente che l’amore per la Patria vada appreso, praticato, vissuto fin da piccoli, come una religione civile. Così, nelle aule della St. Enda’s College come nei circoli giovanili italiani, si educavano i cuori a sfidare gli imperi. Perché solo quando il sapere si mette al servizio di una causa l’idea diventa fucile e la poesia fonda le barricate. Solo così una rivoluzione viaggia accompagnata dal mito e dagli antichi eroi della stirpe.
La scintilla della rivolta
La Rivolta durò solo una settimana. I ribelli si arresero solo quando Dublino cominciò a bruciare e i civili a morire. Pearse fu catturato, processato in segreto e fucilato il 3 maggio 1916. Morì come aveva vissuto: con nobiltà tragica e la luce negli occhi. Il suo ultimo scritto fu una preghiera. La sua ultima parola, dicono, fu “Ireland”. Il suo sacrificio, allora impopolare, fu veramente il seme di un qualcosa di più grande ed immaginabile: “Se ci abbatti ora, risorgeremo e rinnoveremo la lotta. Non puoi conquistare l’Irlanda, non puoi spegnere la passione irlandese per la libertà: se la nostra azione non sarà stata sufficiente per conquistarla, saranno i nostri figli a farlo”. L’indignazione per le esecuzioni trasformò rapidamente il cuore della nazione, volgendo la catastrofe in vittoria. Tre anni dopo, l’Irlanda intera si sollevò. Il sogno di Pearse aveva preso piede, grazie alla sua stessa morte e quella degli insorti di Pasqua.
Avanguardie dell’origine
Oggi, mentre l’Europa affonda nella noia delle democrazie senza popolo, l’esempio di Pearse torna a bruciare. Egli ci ricorda che la vera rivoluzione è spirituale, che la libertà senza identità è vuota, che un popolo che ha dimenticato il proprio passato è un popolo già morto. “We must go back to the sagas,” scriveva. “A heroic tale is more essentially a factor in education than a proposition in Euclid”. A 109 anni da quella Pasqua insanguinata, il suo pensiero brucia ancora, puro come brace sotto la cenere del tempo. Ci ricorda che senza sacrificio non può esserci rigenerazione. E che le nazioni, come gli uomini, si salvano solo se sanno morire per qualcosa che le supera. Patrick Pearse non è un’ombra tra le rovine: è una voce che ancora canta, come il vento sulle scogliere di Moher, come il grido dei ribelli nei vicoli di Dublino, come pianto e gioia nei pub di Galway, come tamburo di guerra nei cuori liberi. E quel canto non smetterà mai di tacere.
Sergio Filacchioni