Roma, 4 mag – È raro che un’opera storica riesca a trasmettere il senso fisico, tangibile, quasi acustico della tragedia come fa La caduta di Berlino di Werner Haupt, ristampata in edizione italiana da Italia Storica Edizioni.
La caduta di Berlino
Non siamo davanti alla solita cronaca accademica filtrata dal moralismo postbellico, ma a un racconto feroce, implacabile e tremendamente umano di ciò che accadde negli ultimi giorni della capitale del Reich, ridotta a un cumulo di rovine e sangue. L’autore, ex ufficiale della Wehrmacht, ci porta dentro la carne viva della battaglia, dove gli ultimi baluardi della civiltà europea affrontano, nella tenaglia sovietica, la definitiva agonia. Il libro non indulge in sentimentalismi né in revisionismi deboli: racconta la realtà come fu vissuta da chi era lì, dai ragazzi della Hitlerjugend che si immolano tra le macerie di Steglitz, ai generali senza più contatti radio, costretti a mandare ordini a cavallo o con staffette condannate a morte certa. Come racconta Haupt, «la quarta e ultima leva era formata da bambini sotto i 15-16 anni e anziani sopra i 61 anni», armati di Panzerfaust e assegnati ai quartieri di Wedding, Moabit e Tempelhof.
Un racconto crudele ma palpabile
Lo stile di Haupt è secco, militare, intriso di un pathos autentico che non nasce da retorica, ma da consapevolezza storica. Ogni pagina odora di fumo, polvere da sparo, carne bruciata. Si respira l’orrore dell’offensiva sovietica del 16 aprile, quando ventiduemila cannoni squarciano la notte dell’Oder e la terra si apre come in un’apocalisse dantesca. L’autore scrive: «Alle ore 3 del mattino… 22.000 bocche da fuoco incominciarono il loro massiccio bombardamento sulla Seelowhöhe… La terra tremava». E tuttavia, la narrazione non è mai sterile. Infatti, La caduta di Berlino è anche un trattato implicito sullo scontro tra due mondi. Da una parte, un popolo che, pur sull’orlo dell’abisso, combatte con onore; dall’altra, un nemico brutale, invasivo, che si presenta come liberatore ma lascia dietro di sé solo devastazione e violenza. E il momento in cui Walther Ulbricht, con dieci quadri comunisti, pone le basi della DDR nel quartier generale di Zhukov, suggella il passaggio dal Reich alla sottomissione sovietica.
Il crepuscolo degli Dei
Colpisce la lucidità con cui l’autore descrive anche il crollo mentale interno del bunker della Cancelleria: Hitler ormai fuori dalla realtà ma fermamente convinto di tenere la posizione, Bormann e Goebbels fantasmi di sé stessi, la disperazione che sfocia nei suicidi. Hitler stesso, nell’ultima riunione con i suoi generali, ammette: «Io non ho idea dove stiano le mie truppe… Nessuno ascolta più i miei ordini. No, io rimango qui!». Eppure, fino all’ultimo, qualcuno ancora combatte, convinto che difendere Berlino significhi difendere qualcosa di più grande: un’idea, un ordine, forse persino un’identità. Quando infine la bandiera sovietica si issa sul Reichstag, un comunicato dell’OKW rivendica: «Le truppe tedesche hanno opposto resistenza fino all’ultimo respiro e dato un esempio del valore tedesco». Piano per piano, stanza per stanza, perfino l’ultima guarnigione asseragliata nel cuore del Terzo Reich impone ai sovietici un tributo di sangue altissimo.
La battaglia più mitica di sempre
In questo scenario, Haupt ci consegna una delle narrazioni più vivide della battaglia finale per antonomasia, unendosi idealmente ai grandi classici come I Leoni morti di Saint-Paulien. Come ricorda anche Il Giornale, la forza di questa edizione curata da Andrea Lombardi sta nella capacità di unire documentazione meticolosa a un ritmo narrativo coinvolgente. Le mappe, le fotografie inedite, ma soprattutto le scene di combattimento sono rese con precisione cinematografica. Indimenticabile l’episodio in cui i volontari francesi dello Sturmbataillon Charlemagne, ultimi difensori di Berlino, affrontano i T-34 sovietici: «— Allons! — grida. — Vive la France, — gli risuona a risposta. […] I francesi si sono messi al collo dei foulard biancorosso-blu. Nella destra portano un Panzerfaust, nella sinistra tengono lo Sturmgewehr» (Il Giornale).
Tragedia fino in fondo
“L’ultima battaglia fu combattuta con una ferocia che sorprese persino i comandanti sovietici. Pensavano che i tedeschi si sarebbero arresi più facilmente, ma no. Casa per casa, piano per piano: fu un inferno”.
(Alexander Werth, “Russia at War: 1941–1945”, NY: E.P. Dutton, 1964)
I sovietici non avevano previsto che la resistenza a Berlino sarebbe stata così feroce. Un’ammissione chiara sembra trasparire su più livelli, nei rapporti militari o nelle memorie di ufficiali dell’Armata Rossa di primo livello come Čujkov o Žukov: “I Fascisti hanno combattuto fino all’ultimo uomo“. E probabilmente lo pensavano con segretissimo rispetto. Mai città fu più ardua da espugnare, mai battaglia più densa di mito, sangue e ideologia. Berlino non fu solo l’ultima roccaforte tedesca, ma il palcoscenico finale di una guerra che voleva farsi tragedia fino in fondo, trasfigurazione totale, rovesciamento del mondo. Questo libro non è per tutti. È scomodo, duro, a tratti spietato. Ma è anche necessario, in un’epoca in cui la memoria è filtrata da cliché e pulizie politiche. Werner Haupt non giustifica, non predica: documenta. E lo fa con rigore, con passione e, cosa rara oggi, con onore. Un’opera da leggere, da meditare, e forse, per chi ha occhi per vedere, da comprendere.
Sergio Filacchioni