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La profondità umana del corporativismo

by Stelio Fergola
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Roma, 16 ago – Ogni tanto è necessario stabilire e ricordare che il fascismo non sia stato solo “manganelli, olio di ricino e dittatura”. Il che dà una dimensione della situazione tragica in cui ci troviamo (intellettualmente, culturalmente, umanamente), dal momento che ogni riflessione in senso diverso nel merito viene scambiata per una “glorificazione”, ma in realtà provoca solo fastidio se ci si permetta di asserire – giammai – che il ruolo storico del Ventennio sia troppo importante per la storia italiana per non poter riconoscere tutta l’immensità creata. Non si tratta di glorificare, anche se una premessa va fatta: chi scrive non ha nessun problema a glorificare il fascismo (ci vuole coraggio a non farlo, con una fase storica che ha costruito almeno un terzo dell’Italia moderna, se non oltre) e non ha tempo da perdere con queste sciocchezze. In ogni caso, ciò che fa irritare i fegati dei più critici è quando si sottolinea l’umanità dell’ideale fascista, la quale, per l’appunto, viene concepita come impossibile (anche per colpa di molti che, anche tra i più vicini a quelle idee, ostenta ancora oggi solo marce, riti solenni ed esaltazione del coraggio militaresco). Vengo da uno scontro dialettico surreale su facebook ed è quello che mi ha ispirato questo articolo. La “puntata di oggi” si concentra sulla profondità umana dell’ideale fascista, nella fattispecie dell’idea corporativa.

Corporativismo, un ideale umano…

Nella testa storta di tanti professoroni non solo farebbe ridere l’affermazione, ma sarebbe addirittura inconcepibile. Il che mostra un atteggiamento nei confronti del reale abbastanza imbarazzante da dover notare. L’espressione “profondità umana”, in particolare, farebbe saltare le coronarie. Non è possibile immaginare che il fascismo abbia proposto qualcosa di simile, perché Giacomo Matteotti venne assassinato, Antonio Gramsci languiva nelle carceri, senza dimenticare la sconfitta nella guerra che condisce tutto, come il sale. Ovviamente, non c’è né il tempo né lo spazio per discutere ciascuno di questi singoli argomenti – e per l’ennesima volta, fra l’altro – ma è chiaro che la cultura sia un motore immobile e in quanto tale destinato a riproporre i soliti dibattiti anche a lungo termine, speciamente quando è dissidente e controcorrente.

In ogni caso, è chiaro che enfatizzare l’aspetto più umano e profondo del fascismo sia un problema. Per qualcuno, evidentemente, l’ideale corporativo non rappresentava nulla di nobile. Prescindendo dall’oviettà di potervi concordare o meno, chiaramente. La questione è che, se il corporativismo può senz’altro suscitare pareri contrari, ci vogliono una bella faccia tosta e una disonestà intellettuale notevoli per ignorarne volutamente l’aspetto profondamente umano e sociale. Sul tema abbiamo scritto tante volte e questo non è un pezzo di approfondimento, bensì di ragionamento. In estrema sintesi, il corporativismo si proponeva di superare i conflitti di classe, di imporre la “concordia” tipicamente fascista e di consentire alle diverse sfere della società di collaborare nel superiore interesse della Nazione (e quindi del collettivo). Questo nelle intenzioni non solo di Ugo Spirito, ovvero il principale teorico nel merito, ma anche di Giovanni Gentile – suo mentore – e di quasi tutta la classe dirigente fascista.

Favole, verità, mezze verità? Non è il punto della questione. Di sicuro, il fascismo i suoi passi per riuscire a pacificare le classi sociali italiane li fece. Dalla Carta del Lavoro del 1927, con il Consiglio nazionale delle corporazioni del 1930 e con l’istutuzione della Camera dei fasci e delle corporazioni del 1939. Si punta, da correnti critiche, a sminuire tutto ciò puntando sull’abolizione del diritto di sciopero nel 1926, dimenticandosi che l’idea del fascismo era quella di rendere lo stesso sciopero inutile, tramite l’istituziuone dei Tribunali del lavoro, incaricati di dirimere le controversie tra capitale e dipendenti. Molto fu fatto sul piano economico, tra nuovi diritti concessi e l’istituzione di uno stato sociale efficiente, poco sul fronte dell’ideale più ambito, quello corporativo. Che però era anche il progetto di lunghissimo termine, il più difficile e complicato da realizzare, mentre il regime – quello vero – sarebbe durato lo spazio di 18 anni: pochissimi, in termini storici, per qualsiasi rivoluzione di una tale portata.

Comunque, per qualcuno un ideale di pacificazione sociale – realizzato o meno, e ribadiamo che non è quello il punto – non potrebbe essere definito umanamente “profondo” nemmeno con sforzo. Una società in cui le classi sociali preservino le loro differenze e le loro unicità in un contesto di collaborazione sarebbe robaccia da poter gettare nel cestino. Farebbe addirittura “ridere” ritenerla un’elevazione dell’essere umano. Sarei ancora più estremo, perché “profondità umana” non è sufficiente. Il corporativismo è stata un’idea buona. Sì, buona. Se qualcuno ritiene che non ci sia nulla di “buono” (parolaccia, se si parla del ventennio!) in un progetto simile, che immagina non solo una società pacficata (al netto di inevitabili difetti e scontri che ci possono sempre essere: non viviamo nel mondo delle favole), ma addirittura rappresentata nelle sue differenze nelle sedi istituzionali, il problema è suo.

Chi scrive non ha mai approvato l’uguaglianza totale proposta dal marxismo. Ma arriva, con un minimo – ma proprio un minimo – di sforzo a rilevarne almeno le ambizioni di giustizia sociale. E in quanto tale, a trarne perfino le potenzialità positive (indipendentemente da ciò che è stato il sistema sovietico nella realtà). Questo tanto per ribadire per l’ennesima volta che – in certi casi – non si tratta di essere fascisti o marxisti, ma di serbare dentro di sé una dote rara: l’onestà intelletuale.

…di cui non abbiamo una reale sperimentazione

È interessante e al contempo drammatico notare come tutto ciò sia rimasto quasi esclusivamente nella mente di chi lo ideò, e non certo per ragioni di impraticabilità, ma di banali contingenze storiche. Il fascismo inseguì l’obiettivo corporativo praticamente in modo primario, ma durò appena vent’anni (anche meno, come accennavamo prima, se si considera che Mussolini comincia ad agire indipendentemente dalle tenaglie liberali solo dopo il 1925, come è noto), il che mal si concilia con un progetto che era, nelle intenzioni delle stesse classi dirigenti, a lungo termine. Gli anni Quaranta sarebbero dovuti essere un decennio importante, per un regime che programmava praticamente tutto (dalle città di nuova fondazione alle operazioni di riqualificazione territoriale, così come le stesse istituzioni dell’Iri e dell’Inps).

Sul tema del corporativismo, insomma, siamo privi dell’elemento empirico, a differenza del marxismo che ha avuto un’applicazione pratica durata più di settant’anni: non sappiamo se avrebbe funzionato o meno. Questo perché gli esperimenti stranieri che hanno tentato di emularne gli approcci (penso soprattutto all’Estado Novo portoghese), oltre ad essere parziali imitazioni, si sono trovati ad agire in un mondo globale cannibalizzato dalla vittoria del liberalismo di stampo anglosassone uscito trionfatore dalla guerra (insieme al comunismo sovietico che però rappresenta una storia a parte), e di conseguenza troppo isolato per poter sopravvivere.

Stelio Fergola

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