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Moneta, lavoro e l’inflazione di cui abbiamo bisogno

by La Redazione
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inflazione prezziRoma, 14 giu – Esiste un fastidioso ritornello che si sente spesso dai sostenitori dell’euro, in specie quelli “di destra”, solitamente infettati dal virus del signoraggismo o simili, per i quali uscire dall’euro non serve a nulla perché i problemi che soffriamo con la moneta unica li soffrivamo anche prima. Questa è ovviamente una baggianata bella e buona, con cui costoro dimostrano di non sapere cosa comporta possedere o non possedere la sovranità monetaria, che in parole povere implica la facoltà di monetizzare il deficit pubblico e di svalutare il cambio nominale.

Andiamo con ordine. Sotto il profilo macroeconomico, uno dei problemi problemi principali dell’Italia è una disoccupazione spaventosa, ufficialmente al 13% ma probabilmente a livello spagnolo. Come sa chiunque abbia letto Keynes, a nulla serve per rimettere in carreggiata l’economia agire dal lato dell’offerta, cioè delle imprese, ed il motivo lo capirebbe anche un bambino: puoi anche azzerare le imposte sulle persone giuridiche e flessibilizzare totalmente il rapporto di lavoro subordinato, ma ciò non incrementerà l’occupazione di una sola unità, perché l’unico motivo razionale per cui un’imprese vuole assumere gente, ergo sopportare un aumento di quelli che dal suo punto di vista sono costi (salari e contributi) è perché ha la prospettiva di aumentare i suoi fatturati nel futuro.

Questo è ovviamente impossibile in una situazione di alta disoccupazione, recessione, deflazione, in cui la domanda aggregata -quanto si spende in generale in una economia- è in crollo verticale. L’unica soluzione onesta è un aumento del disavanzo dello Stato che immetta nuova liquidità e quindi domanda nell’economia, “costringendo” le imprese ad assumere per far fronte ai nuovi ordinativi. Ovviamente, questo tipo di politiche richiede una banca centrale subordinata al governo che possa quindi sostenere il deficit pubblico.

E qui arriviamo al nocciolo della questione, cioè l’inflazione. Ci è stato detto per decenni che l’indipendenza della banca centrale era necessaria per impedire ai politici di coprire le proprie magagne stampando tonnellate di cartamoneta e mandando l’inflazione alle stelle. Tale bufala ha ovviamente convinto i sindacati a passare armi e bagagli con il nemico, ovverossia con quelli che dall’inflazione ci perdevano di più vedendosi svalutare i propri asset finanziari: banche e redditieri.

Perché parliamo di bufala? Perché la storia recente dimostra senza tema di smentita che i prezzi non dipendono di per se dalla moneta altrimenti gli Usa, con le decine di trilioni di dollari che la Fed ha usato per comprare i crediti marci delle banche americane, dovrebbero essere in una iperinflazione in stile Weimar. Persino Draghi ha ammesso che il suo Qe non ha alcun effetto diretto sui prezzi.

Questo perché i prezzi non dipendono dalla moneta, ma dai costi che le imprese produttive e commerciali devono sostenere, fra cui il lavoro è uno di quelli più pesanti. E cosa rende il lavoro più o meno costoso, se non la legge della domanda e dell’offerta? In altre parole: se per effetto delle politiche fiscali espansive (aumento del deficit pubblico) del governo il lavoro diventa, come si suol dire, marginalmente raro, cosa succede ai salari, e quindi ai prezzi? Crescono entrambi. E cosa succede se, poniamo, aumenta invece la disoccupazione marginale per effetto di scriteriate politiche immigrazioniste? Esattamente: deflazione salariale.

Certo, apparentemente questo sembra essere un gioco a somma zero, nel senso che se gli aumenti salariali si ripercuotono necessariamente sul tasso d’inflazione, allora ben difficilmente questa situazione può essere vista come un guadagno per i lavoratori e la società tutta. Questo però è solo se non si considera che in realtà, se ben indirizzato, il deficit pubblico può servire ad incrementare la produttività del lavoro (in pratica, il Pil aggiunto da un’ora di lavoro di un singolo operatore) e quindi paradossalmente rendere “meno inflattivo” l’incremento della domanda aggregata, aumentando i margini delle imprese. Per questo abbiamo sempre insistito sulla necessità di uscire dall’euro ed utilizzare la banca centrale per monetizzare un audace programma di investimenti pubblici in particolare nelle infrastrutture fisiche di base che, nel lungo periodo, possano aumentare l’efficienza e la competitività del nostro sistema economico. Finanziare le infrastrutture fisiche di base non è la stessa cosa che regalare un reddito di cittadinanza o al limite, come proposto dai teorici della Mmt, assumere tutti i disoccupati in un qualche baraccone pubblico per fargli raccogliere le cartacce dai parchi.

Certamente però non potremo sfuggire, nel perseguimento di queste politiche di piena occupazione, ad un certo incremento dell’inflazione ed è per questo che esse non possono essere perseguite all’interno dell’Eurozona. Se anche infatti si cambiasse, come pretendono i Varoufakis di turno, lo statuto della Bce, obbligandola per esempio a monetizzare programmi di riassorbimento della disoccupazione nei singoli Stati, torneremmo ad accumulare deficit commerciali cronici con la Germania a causa delle sue politiche apertamente deflazionistiche che l’hanno portata a diventare il creditore d’Europa.

Per cui, uscire dall’euro ed usare la sovranità monetaria per riassorbire la disoccupazione, ovvero come abbiamo detto monetizzare un programma di investimenti pubblici in disavanzo atto ad incrementare occupazione, risparmio diffuso e produttività del lavoro, lasciando che l’inflazione conseguente si scarichi sul cambio senza compromettere quindi la nostra competitività internazionale nel breve periodo.

In presenza di vincoli alla circolazione dei capitali, una moderata inflazione -comunque più alta dell’arbitrario 2% perseguito dalla Bce- è di fatto una tassa sui patrimoni finanziari che va quindi a beneficio dello Stato, delle imprese e delle famiglie. Capiamo ora perché esiste questa insensata paranoia dell’inflazione, del tutto assente fino agli anni ’70, nonostante essa fosse in quasi tutte le economie sviluppate a doppia cifra a causa delle due crisi petrolifere intercorse nel ’73 e nel ’79: con l’inflazione non può prosperare la rendita, non ci si può arricchire facendo lavorare il danaro, ma bisogna lavorare o investire, o al limite sperare nella fortuna con il superenalotto, nella morte di uno zio ricco o nella scoperta del petrolio sotto casa.

C’è poi un altro fattore più subdolo: l’indipendenza della banca centrale dal governo ha di fatto “sterilizzato” l’intervento anti-ciclico del secondo in sostengo dell’occupazione, essendo lo stesso diventato troppo costoso e rischioso. Questo ha aumentato la disoccupazione con gli effetti deflattivi che abbiamo visto, ammansendo le maestranze ad accettare oramai qualunque cosa. Non si tratta quindi semplicemente di un piano per favorire le rendite a scapito del lavoro e di fatto anche dei profitti delle piccole e medie imprese, ma anche e soprattutto di un grandioso e terribile esperimento di ingegneria sociale. Non si tratta meramente di danaro, come sfugge spesso all’analisi inevitabilmente economicista di molto critici del sistema di stampo marxista o keynesiano, ma di potere. Un nuovo tipo di società cosmopolita ed oligarchica, fatta di masse incapaci anche psicologicamente di pensare a qualunque alternativa, dopo decenni di educazione alla “durezza della vita”, come la chiamava il non troppo compianto compagno Tommaso Padoa Schioppa.

Matteo Rovatti

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Simo BZ 16 Giugno 2015 - 5:26

Articolo davvero interessante! Tutto molto bello.
Basterebbero due semplici paroline: Spesa pubblica. Aumentarla per favorire investimenti, aumentare la domanda e quindi forse aumentare i consumi e la tanto agognata crescita economica. Peccato che:
1. Politiche “di destra” o “conservatrici” hanno a cuore i conti di fine anno e quindi ci hanno detto che no, non si può fare (spending review).
2. Anche se una forza “di sinistra” o “progressista” riuscisse nel suo intento di far accettare un deficit pubblico maggiore, si porrebbe un ulteriore problema: questo benedetto deficit pubblico deve in qualche modo essere coperto.
3. Non avendo una moneta sovrana, ogni Stato Europeo deve reperire le risorse finanziare per la propria spesa in deficit da terzi. A chi si devono rivolgere? Alla BCE, OVVIO!
Come detto, tutto molto bello…
Non facciamo più parte di uno Stato ma di una grande banca! Non interessa altro che il DARE sia uguale all’AVERE.
Evviva la tecnocrazia!

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