Roma, 4 feb – Giudizio positivo per il “Primo Re”. Dopo tanti anni è il primo film che sembra infrangere la maledizione del cinema italiano (colta anche da Quentin Tarantino) che solitamente oscilla tra i film depressi cari alla borghesia de sinistra e quelli caciaroni, anche un po’ gastrointestinali, che divertono la borghesia commerciale di centrodestra, e forse non solo.
In questo film diretto da Matteo Rovere invece c’è azione e c’è ispirazione.
Inutile cercare una aderenza troppo stretta al mito. Un mito è tale anche perché a distanza di generazioni può suscitare nuove varianti, come una stella che danza.
Bello il motivo che è al centro della storia 2.0 di Romolo e Remo: due giovani sono come due parti di uno stesso essere, legati da un senso di fratellanza ancestrale; i ruoli sembrano essere prefissati, ma a un certo punto si capovolgono: il più forte manifesta un carattere umano troppo umano, che alla fine lo perderà.
Il debole invece, col suo senso di pietas si rivela essere il più forte, il predestinato.
Il senso mistico della natura
Il motivo più intenso del film è forse nelle sue visioni paesaggistiche.
“Il Primo Re” riesce a comunicare un sentimento mistico della natura. Vediamo la potenza delle acque all’inizio del film, con una sequenza esagerata di lotta tra i due fratelli e la piena del Fiume, il Tevere, che rimane per tutto il resto del film protagonista oggettivo: la compagnia di Romolo e Remo cerca salvezza attraversando il fiume. Il superamento delle acque, tempestose all’inizio della vicenda, placide e solenni alla fine, rappresenta quasi un motivo iniziatico, che conduce alla fine del pericolo mortale, alla nascita di una Città che è la Civiltà per antonomasia.
Ancor più sacrale delle acque è il fuoco. La sua virtù metafisica è espressa con una nettezza che sarebbe piaciuta al mio maestro Pio Filippani-Ronconi. E la fiamma si incarna in una donna, la Vestale, che appare avvolta in una veste rossa che fa contrasto col contorno di pelli pastorali e primitive. Il fuoco è sacro, Romolo alla fine lo rianima riaccendendo la speranza nella comunità.
Vi è poi la foresta come luogo di passaggio da morte a nuova vita. Nel suo lato oscuro essa rappresenta una sfida tremenda, ma quando si illumina di fasci di luce svela la presenza di una forza superiore, mai nominata nel film eppure intuibile. Nel cuore della foresta vi è anche un cervo che, con buona pace di vegetariani e pacifisti, una volta abbattuto col suo sangue rigenera il moribondo Remo. L’immagine delicata del cervo nel verde della selva è forse il simbolo metafisico più centrato del film, non so se per scelta consapevole o inconscia degli sceneggiatori.
Fratellanza e comunità
Ma “fratellanza” è la parola-chiave del film. Frater è la parola che ricorre affannosamente in tutti i passaggi del film pronunciata in una forma arcaica che ricorda il gaelico “brathair”, ma che ai giovani col cappellino ricorderà (il che non è sbagliato) il “brò” dell’inglese americanizzato.
La fratellanza che è più forte di ogni nemico è tuttavia fratellanza tragica dal momento che uno dei due è destinato a morire, affinché l’altro possa essere re e fondatore.
Alla fine Romolo emerge perché riesce ad estendere la fratellanza alla comunità, stringendo un patto tra uomini liberi. Ma anche Remo, prima che una certa tracotanza lo perdesse, è nobile nel mettere in atto quello che era il rito ancestrale dei cacciatori: la condivisione del pasto, dopo la cattura della preda. Rex est colui che dopo aver guidato il gruppo con saggezza ed aver esercitato la forza, distribuisce fraternamente la prosperità.
Si accennava prima alla potenza del fuoco, che trova il suo corrispettivo umano nella vestale. La vestale della città di Alba che appare all’inizio della vicenda celebra sacrifici umani, sembra esprimere il fascino tremendo della magia arcaica. La vestale ancora fanciulla scelta poi da Romolo incarna un candore religioso e una casta bellezza che segna un distacco rispetto alla scena notturna (e matriarcale) di prima, l’inizio di un nuovo ciclo di civiltà sotto un cielo più chiaro.
Alcune criticità
Veniamo ora ai punti dubbi. Romolo, Remo and friends sono un po’ troppo preistorici.
Nel paesaggio non si vedono i carri di battaglia con ruote di bronzo, che erano le BMW e le Alfa Romeo dell’epoca. Si vedono le asce e fanno sempre tanta simpatia a chi ama le Antichità Europee, ma mancano le corazze decorate e gli elmi già attestati dal 1100 avanti Cristo… Romolo porta al collo un dentino candido come ciondolo, quasi fosse un hawaiano, ma se è vero che siamo nell’Età del Ferro allora ogni capo pastore, anche poverello, ha diritto al suo bel monile metallico.
Certo comprendiamo la scelta ostentatamente “preistorica” degli autori per dare il senso di una origine, di un principio arcaico e tuttavia sarebbe stato anche affascinante impreziosire il film con qualche tocco archeo-futurista mostrando qualche megalite (l’Italia dalla Sardegna a Malta era piena di megaliti), oppure qualche vestigia rituale come le splendide barche del Sole in bronzo della cultura villanoviana, da cui discende quella latina.
Ci si rallegra comunque nel vedere alcuni particolari estetici: certi visi splendidamente italici, sia pur mescolati ad altri che pagano un po’ dazio alle ossessioni in stile Netflix. Su questo secondo versante, suscita una certa ilarità per chi conosce minimamente il paesaggio antropologico dell’Europa arcaica, il vedere le acconciature in stile rasta: le ragazze del Basso Lazio una volta al mese dovevano lasciare le loro capanne per andare in qualche Hair Studio di Detroit per conciarsi in quel modo… Piccoli conformismi che si perdonano se si pensa al piacere di ascoltare i suoni gutturali e ritmati del Latino arcaico.
I due protagonisti
Ritorniamo ai due protagonisti, ottimamente interpretati: Remo (Alessandro Borghi) è travolto dalla hybris, Romolo (Alessio Lapice) all’inizio della storia più pallido ne esce trionfatore in virtù della pietas, della consonanza col volere degli Dei. Quando Remo al culmine della sua arroganza dichiara di credere solo in un potere individuale fondato sulla forza che incute timore, Romolo stupefatto gli chiede: “ma allora tu non senti più il Dio?”. Una frase che esprime la più schietta professione di fede di un’anima senziente arcaica, destinata però a fondare la civiltà che col diritto e le istitutiones avrebbe espresso la pienezza dell’anima razionale indoeuropea.
Alla fine Romolo è re perché dopo aver sacralizzato la terra tracciando il sacro limes, riesce ad affermare un potere regio basato sul carisma di unire le genti, di associare gli uomini come liberi, come futuri cives.
Certo la sceneggiatura castiga Remo per la sua arroganza caratteriale, ma alla fine svela in un fuggevole fotogramma il vero motivo – tragicamente attuale – della sua empietà: l’aver superato il limes, l’aver violato il confine che è la prima forma della città infrangendo il quale l’ordine sociale e con esso la libertà e ogni qualità del vivere civile rischiano di ricadere nel caos primigenio.
Quella sequenza di tre secondi nel finale esprime il suo messaggio più alto: ci vuole un Romolo per ripristinare il patto, la città e il suo limes, affinché abbia senso il grido finale – rivolto a tutti i fomentatori di caos – “Tremate, questa è Roma”, ovverosia la civiltà.
Alfonso Piscitelli
1 commento
Ma voi davvero fare o fate finta…????
“Certo comprendiamo la scelta ostentatamente “preistorica” degli autori per dare il senso di una origine, di un principio arcaico e tuttavia sarebbe stato anche affascinante impreziosire il film con qualche tocco archeo-futurista mostrando qualche megalite (l’Italia dalla Sardegna a Malta era piena di megaliti), oppure qualche vestigia rituale come le splendide barche del Sole in bronzo della cultura villanoviana, da cui discende quella latina.
Ci si rallegra comunque nel vedere alcuni particolari estetici: certi visi splendidamente italici, sia pur mescolati ad altri che pagano un po’ dazio alle ossessioni in stile Netflix.”