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Raspail e Il campo dei santi: dalla metafora alla realtà

by Sergio Filacchioni
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Raspail

Roma, 13 giu – Nel romanzo Le Camp des Saints, Jean Raspail immagina l’arrivo sulle coste francesi di un’armata di disperati provenienti dall’India: un milione di persone stipate su una flotta fatiscente, spinte dalla fame, dalla miseria, ma soprattutto da un’ideologia che l’Occidente si è imposto di non contrastare: quella dell’altruismo suicida. La Francia del romanzo accoglie senza resistere. La sua classe dirigente abdica al senso della realtà, mentre le élite culturali e mediatiche celebrano l’“accoglienza” come unico atto moralmente lecito.

Raspail fu troppo ottimista?

Se Raspail vedeva l’invasione come un’onda che arriva da lontano, visibile, compatta, con un suo tempo e un suo inizio preciso, oggi ci troviamo in una realtà ancora più inquietante: l’invasione non è annunciata da navi visibili all’orizzonte, ma già radicata nei nostri quartieri. Da Los Angeles (dove i marines sono stati schierati per contenere saccheggi e violenze urbane) fino a Belfast, passando per Parigi, l’elemento destabilizzante è ormai interno, integrato solo nominalmente, ma culturalmente ed emotivamente separato. Non c’è più uno “scontro di civiltà” tra due blocchi distinti: lo scontro è interno, quotidiano, molecolare. Qualche indizio, Raspail ce lo aveva comunque dato: “Avete creato dal nulla, nel cuore del nostro mondo bianco, un problema razziale che lo distruggerà, ed è proprio questo il vostro obbiettivo, dato che nessuno di voi è fiero della sua pelle bianca e di ciò che essa significa”. Parole che rimbalzano 52 anni dopo sulla bacheca dell’eurodeputata Ilaria Salis: “Fanculo la bianchezza“. Lei, manco a dirlo, è bianca. Insomma, oggi l’invasione ha dei tratti profondamente asimmetrici. Un disagio che vive, si nutre e si moltiplica dentro i centri commerciali, nei social network, nei video virali dei saccheggi. Non è un’invasione che distrugge per odio, ma per divertimento.

Il barbaro post-moderno

Nel romanzo, l’orda indiana era dipinta da Raspail con tratti quasi escatologici. Quei “barbari” non portavano solo distruzione, ma incarnavano anche un ritorno a una forma primordiale di umanità, capace di mettere a nudo i vizi terminali dell’Occidente come un castigo divino. Il loro leader, seppur mostruosamente deforme, aveva un carisma dai tratti messianici. Il loro presentarsi senza invito sulle coste della riviera francese era l’avverarsi inevitabile di una crisi morale prima che politica. Oggi, invece, il barbaro moderno è tutt’altro che primitivo: non cerca di abbattere la civiltà occidentale, ma di parteciparvi nel modo più degenerato. I saccheggiatori immortalano le loro imprese con gli smartphone, assaltano negozi di scarpe firmate, si esibiscono sui social come in una parodia tragica della società dello spettacolo. “Saranno stanchi, avranno freddo, e faranno un fuoco con la vostra bella porta di quercia“, una frase simbolo del romanzo che però potrebbe tranquillamente suonare così oggi: sono annoiati, hanno un piumino che li copre, e faranno un fuoco con le vostre macchine per divertirsi. Questi nuovi attori della crisi non sono spinti da una visione del mondo alternativa, e nemmeno da uno spirito di rivalsa. Sono molto più simili agli occidentali: li guida la pulsione istantanea di esistere nel flusso digitale. Non rifiutano la civiltà: sfruttano il suo paradosso.

Il suicidio dell’Europa

C’è sicuramente un punto in cui Raspail fu spietatamente preciso. L’atteggiamento della sinistra e della stampa di fronte a un fenomeno che nulla ha di umanitario, ma viene descritto come tale per dovere ideologico, è ritratto nel libro con inquietante precisione. Chi sono? “Tutti coloro che da molti anni minavano le coscienze del mondo occidentale a colpi di petizione“, i buoni e giusti dell’accoglienza a tutti i costi. Sono quelli che negano la “grande sostituzione” o, peggio, quelli che la celebrano. Sono quelli che quando esplodono le violenze urbane parlano di “disagio”, di “rivendicazione sociale” ed “espressione di marginalità”. Lo abbiamo visto dopo il caso di Ramy, o di George Floyd. Basti pensare ai recentissimi fatti in Irlanda del Nord, dove la violenza esplosa a Ballymena è stata descritta da alcuni media come “un malinteso culturale”, quando è evidente che si tratta di tensioni esplosive, legate all’immigrazione incontrollata e alla perdita di coesione sociale. Ecco qui la profezia di Raspail si compie in tutta la sua forza. Perchè il vero cuore del romanzo non è l’invasione, ma il suicidio dell’Europa. Una resa che non è militare, ma morale. La classe intellettuale, politica e giornalistica dell’Occidente non solo non oppone resistenza, ma accoglie il collasso come un atto di giustizia storica. Il mostro deforme e messianico è l’élite culturale che ha intossicato le coscienze goccia dopo goccia.

La Cassandra d’Europa

In uno dei passaggi più discussi e taglienti del romanzo, Raspail smonta l’ideale astratto della fratellanza universale: “L’uomo non ha mai amato il genere umano nel suo complesso – razze, religioni, culture – ma solo coloro che riconosce come propri simili e che appartengono al suo clan, per quanto vasto questo possa essere”. Oggi, in nome di un umanitarismo che ha perso ogni senso del limite, si nega questa verità antropologica. Ma il risultato non è la pace tra i popoli, bensì l’acuirsi del conflitto tra individui che condividono lo spazio senza condividere il destino. A rileggere oggi Il Campo dei santi, emerge un paradosso: Raspail fu – per assurdo – fin troppo ottimista. Ma in questo Jean Raspail non è stato solo uno scrittore provocatore. È stato, a suo modo, un Cassandra europeo. Aveva raccontato tutto, ma in forma ancora contenuta, quasi allegorica. Non poteva immaginare che un giorno la post-invasione sarebbe stata simultaneamente reale e invisibile, accolta e imposta, esaltata e temuta. Nel giorno della sua commemorazione, possiamo dire con amarezza che il suo libro non ha sbagliato: forse ha sottovalutato quanto l’Europa fosse disposta a lasciarsi morire.

Sergio Filacchioni

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