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Rearm Europe: perché opporsi vuol dire rimanere schiavi

by La Redazione
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Roma, 12 mar – La storia sta subendo un’accelerazione di portata globale, forse mai vista in un periodo di tempo così breve; equilibri consolidati da decenni, anche se per ora solo sulla carta, iniziano ad essere messi in discussione. La storica prevaricazione stile gangster di Trump nei confronti del presidente dell’Ucraina Zelensky, unita a molte altre dichiarazioni, ha definitivamente mostrato l’assoluta vicinanza, politica e ideologica, tra gli interessi Usa e quelli della Russia di Putin. L’Ue, in seguito a questa naturale rivendicazione, sembra essersi svegliata da quel torpore e immobilismo che ha contraddistinto la sua intera esistenza fatta solamente di assurdi diktat economici, follie woke e green, direttive e retorica vittimistica anti-identitaria. Ora, per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, Nazioni europee parlano di riarmare i propri eserciti e di attuare una vera politica di difesa unitaria. Rearm Europe: ecco la frase che in questo momento ha raggiunto gli onori di cronaca. Ma tornare a parlare in una prospettiva di armi, eserciti e, eventualmente, anche di guerra cosa significa per l’intero continente?

Conservare o accelerare?

Innanzitutto bisogna tracciare un primo solco, un confine sacro per stabilire chi è dentro e chi è fuori: o più semplicemente rifarsi alla classica distinzione schmittiana amico-nemico. A fronte della riorganizzazione del mondo per grandi spazi e all’affacciarsi nuovamente di veri e propri imperi, pensare ancora solamente nei termini di Stato Nazione è da ritenersi ormai superato. Chi non aspira ad un’Europa sovrana, unita e potente non potrà aspirare lo stesso destino per qualunque altra Nazione della stessa, Italia compresa. Ulteriore dato di fatto è che dal 1945 questo stesso campo geografico sia terreno di conquista per diversi imperialismi esterni che, nel tempo, hanno rafforzato ogni tipo di garanzia per prevenire eventuali tentativi di rivolta degli europei: vittimismo, rassegnazione, debolezza e sottomissione sono state le parole d’ordine imposte nel discorso pubblico da un lato all’altro del continente. Questo lo status quo, questo l’ordine stabilito dai garanti di Yalta. La questione è quindi esistenziale: conservare o distruggere le catene? Sprofondare o accelerare verso un nuovo paradigma? Se la volontà non è quella di affrancare l’Europa dal dominio americano e, nello stesso tempo, contrastare l’espansionismo russo ma è invece quella di restare perennemente in una posizione di subordinazione rispetto a questi allora è arrivato il momento, per chiunque sia mosso da visioni simili, di essere cacciato dalla parte opposta del nostro sacro limes.

Sfide e ostacoli

Il riarmo e l’aumento di investimenti in campo militare non può che essere rivolto alla creazione di un esercito europeo unitario, primo passo per un più ampio e complesso progetto di sovranità e indipendenza europea. Ma, nel concreto, quali sono gli ostacoli e le prospettive di un progetto simile? Fin dagli anni ’50 le principali Nazioni del continente, in modo particolare Francia e Italia, pensarono ad una collaborazione militare. In questo periodo infatti venne proposta la creazione della Ced (Comunità europea di difesa), progetto mai ratificato e fallito da lì a poco a causa di ripensamenti vari e in seguito alla definitiva imposizione della Nato da parte americana come principale alleanza militare. L’Ue, non essendo uno Stato unico vero e proprio, fin dalla sua istituzione è sempre stata caratterizzata da una frammentazione politica e da interessi divergenti soprattutto in questioni estere e di difesa; su questa lentezza burocratica e decisionale, oltre alla mancanza di una leadership chiara, pesa sicuramente il principio di unanimità il che rende difficile scelte rapide e concise. Inoltre, il completo disinteresse da parte dei burocrati di Bruxelles per tutto ciò che non concerne interessi di mercato, concorrenza e libero scambio (impedendo di conseguenza investimenti strategici comuni), ha fatto si che l’intero continente dipendesse fortemente dagli Stati Uniti per capacità logistiche militari, nucleare strategico, tecnologia e intelligence. Tutti questi ostacoli politici, economici e tecnologici si sommano ai ben più influenti pacifismo radicato, nazionalismo piccolo borghese di alcuni stati e generale scarsa volontà politica di avere una reale potenza europea. L’industria militare e tecnologica europea, se unita e coadiuvata da investimenti strategici, ha il potenziale per competere e addirittura superare Russia e Stati Uniti, affermandosi così come un vero attore globale. Aziende avanzate come Leonardo, Rheinmetall, Airbus, Fincantieri, Mbda e altre non hanno nulla da invidiare come know-how tecnologico su aerei, veicoli corazzati, missili e cantieristica navale; così come non manca l’alto livello di innovazione in droni, guerra elettronica, Ai e sistemi satellitari (Galileo). Indipendenza e potenza, unificando e centralizzando progetti e produzione oltre che aumentando il budget per difesa e investimenti di ricerca e sviluppo, sono davvero possibili.

Un nuovo mito

Quindi, davvero il dibattito sul riarmo si può ridurre a simpatie partitiche o a sterili discussioni da salotto? Da quando il pacifismo umanitario o richiami a costituzioni e parlamenti possono essere eretti a contraltare di necessità e tendenze storiche? È ora di farla finita con il ‘900, quel ‘Secolo breve’ con il quale in realtà non abbiamo ancora tranciato i ponti e del quale siamo ancora succubi. Un pensiero rivoluzionario deve sapersi trovare al posto giusto nel momento giusto, creando nuovi miti con i quali incarnare l’avanguardia che plasmerà le forze storiche in atto, anticipandole. Verità stabilite e scenari predeterminati non esistono, solamente guardando l’abisso e saltandoci dentro è possibile raggiungere nuovi lidi: l’ordine stabilito da ottant’anni a questa parte ha imposto la cultura della colpa e della debolezza, anche bandendo dalla narrazione parole come armi e esercito, avallare tutto ciò significa conservare la condizione attuale. Che sia forse la riproposizione da manuale dopo ottant’anni dell’accordo di Yalta, con il quale veniva imposto il dominio dello spirito egualitario in Europa sotto il cappello dell’antifascismo, a segnare la fine stessa di tale paradigma storico? La storia, a differenza di come è intesa dagli alfieri di questa tendenza dominante, è sferica: che sia quindi proprio l’accordo antieuropeo tra Washington e Mosca origine e superamento di quella garanzia rivolta a prevenire la creazione di un’Europa forte e indipendente?

Renato Vanacore

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