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Tra Mito e utopia: la Storia passa e non fa prigionieri

by Carlomanno Adinolfi
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Roma, 7 mar – Mito e Utopia. Georges Sorel aveva ben chiara questa distinzione. Il primo è un complesso di immagini in grado di agire sull’istinto per sprigionare in questo modo l’azione, insomma un’idea mobilitante capace di muovere la storia. Il secondo è invece teoria, una rappresentazione intellettuale, uno schema ideale da discutere ma che non è realizzabile e non ha effetto sull’azione. Il filosofo francese fece questa distinzione per criticare in modo avanguardista e attivista il movimento socialista internazionale, troppo preso nelle sue utopie intellettuali e nella ricerca scientifica della dottrina della rivoluzione e che finiva sempre per disconoscere l’azione dei gruppi più anarchici e radicali.

L’immaginario del fascismo

Qualche anno dopo questa distinzione sarebbe stata palesata in Italia nel quadriennio 1919-1922. Storici e contemporanei hanno spesso imputato a Mussolini di essere un tatticista estremo, di agire sull’immediato in modo istintivo e assolutamente non programmatico. E la prova ne era tanto l’assenza di “dottrina” fascista (almeno fino al 1932) quanto la massima mussoliniana che decretava il primato dell’azione sull’idea.

Ovviamente è una critica aprioristica, palesemente in mala fede e assolutamente anti-storiografica. Questo perché ritenere che un “populista” che basava l’azione solo sul situazionismo e sul tatticismo estremo potesse prendere il potere in quel modo e mantenerlo per venti anni costruendo uno stato totalitario come lo fu il Fascismo è come raccontarsi una barzelletta. In realtà il cosiddetto “immaginario” che mobilitò il Fascismo fu chiaro fin da subito. Fin da prima della sua nascita, quando nacquero l’interventismo, l’arditismo e il fiumanesimo che raccoglievano a piene mani da tutto un sentimento irrazionale e sovrasensibile recuperato durante il Romanticismo e il Risorgimento. E che affondava le sue radici nella Roma imperiale e nell’ideale dantesco. Fu proprio questo “immaginario” a mobilitare le élite rivoluzionarie, capaci di cogliere le dinamiche della storia in un momento particolare di cesura e trasformazione epocale.

Il fallimento dei socialisti

Di contro, i socialisti, rimasero sempre a un passo dalla vittoria senza mai coglierla, cadendo rovinosamente di fronte ai nemici. Leggendo le relazioni del congresso del gennaio 1921 che decretò la scissione comunista, ma anche il dibattito interno durante la stagione dello sciopero generale, fallito, dell’autunno del 1920, si ha chiarissima la dinamica – o meglio la statica – che portò al loro fallimento. La rivoluzione poteva essere fatta solo in un modo, a certe condizioni. Vi era una dottrina scientifica che andava realizzata in modo puntuale e qualunque deviazione veniva vista come un cedimento alla borghesia o come una sorta di eresia dottrinaria.

Lo sciopero fallì e venne detto ai lavoratori – la maggior parte dei quali passò per questo armi e bagagli al fascismo – perché non vi erano ancora le condizioni e le congiunture adatte per la rivoluzione. La scissione avvenne perché il comitato internazionale imputò ai massimalisti di essere stati addirittura poco scientifici e poco aderenti alle istruzioni per la rivoluzione, scolpite nella pietra e immutabili. La Storia non fa prigionieri. Quando si presenta, passa e porta con sé i suoi effetti, fasti o nefasti che siano. Quando agli inizi degli anni Venti si presentò, i social-comunisti ne furono travolti. I fascisti fecero la Marcia.

Abbandonando il Mito rimane solo l’utopia

Sono passati più di cento anni. Abbiamo imparato qualcosa? Guardandoci intorno, sarebbe fin troppo facile rispondere di no. Forse la sconfitta del 1945, seguita dalla tragedia degli Anni di Piombo e poi dalla crisi delle ideologie ha fatto sì che la chiusura del nostro mondo abbia creato una sorta di “culto giustificazionista della sconfitta”. Una sorta di mito incapacitante. La semplificazione della dottrina del Kali Yuga (“non si può agire nel mondo di oggi”), poi le interpretazioni sfigate di Tolkien (“l’anello è qualunque cosa ti possa far agire sul reale e va rifiutato”) per poi arrivare ai complottismi più estremi hanno raggiunto il massimo nell’era digitale di atomizzazione sociale.

Siamo diventati i migliori al mondo a produrre schemi ideologici virtuosi e modelli ideali. Raffigurazioni ideologiche su come dovrebbe funzionare il mondo e come queste si differenziano dal mondo reale, conquistato e dominato da forze oscure e diaboliche e nel frattempo abbiamo perso ogni spinta mobilitante. Abbiamo abbandonato il mito, ci è rimasta solo l’utopia.

Cogliere le dinamiche o venirne travolti

Ora la Storia sta ribussando pesantemente. È chiaro a tutti, tranne forse che a molti dei “nostri”. Non era necessario studiare la mappa astrale dell’allineamento planetario del 2020 per capire che il decennio entrante sarebbe stato un decennio di grossi cambiamenti e di forti dinamiche di cambiamento. Così come il concetto di “agenda 2030” non era solo un piano complottista gestito dai signori invisibili della plutomassoneria interplanetaria. La Storia non è solo l’effetto dei piani segreti decisi in un tavolo all’ultimo piano del palazzo sotterraneo dei suddetti signori invisibili.

La Storia è un intreccio di dinamiche spesso innescate volontariamente dagli uomini, molto più spesso innescate da azioni e reazioni involontarie e “necessarie”. C’è chi sa coglierle e sfruttarle, c’è chi ne viene travolto. Come nel 1922. È ovvio che chi si trova in posizioni di potere ha più facilità di coglierle rispetto all’ultimo militante che volantina per strada, ma questa convinzione spesso diventa un ulteriore mito incapacitante che ci porta a dire “tanto non è possibile”.

Agire per il Mito o aspettare l’utopia?

Come porsi quindi di fronte alle dinamiche sconvolgenti della Storia? Sarebbe deprecabile fare come i massimalisti di allora. Ovvero fermarsi e dire “eh ma la congiuntura attuale non è come quella ideale”. La Storia ci pone di fronte a una accelerazione verso la formazione di un’Europa armata, senza più lo “scudo” americano, che per forza di cose ha bisogno di una centralità politica forte e dell’abbandono dei freni burocratici e degli interessi e delle volontà sabotatrici delle ong.

Quando l’Italia entrò in guerra nel 1940, il mito mobilitante era proprio un’Europa unita e protagonista della Storia contro i colossi russo e americano (per gli euroscettici di casa nostra forse è il caso di aggiornarsi e andare a leggere quello che scrivevano Mussolini e i principali intellettuali fascisti a fine anni Trenta sulla necessità di una potenza continentale, dando per oramai assodato il fatto che lo Stato Nazione fosse un concetto superato) come lo era anche di tutti quelli che ci hanno preceduto e che sono anche caduti nella lotta di cui abbiamo deciso di prendere il testimone. Cosa volere di più?

Eppure viene detto “eh ma l’Europa che si sta per fare non è l’Europa ideale”. Oppure “eh ma gli interpreti attuali della storia non sono virtuosi, anzi sono politicamente e umanamente pessimi”. O ancora “ma come possiamo fare l’Europa ora che siamo tutti contro tutti e cerchiamo di fregarci a vicenda?”. Insomma, non possiamo sostenere Macron, la Von der Leyen, eccetera eccetera. Meglio aspettare che l’Europa la faccia “qualcun altro”, no? Mentre il resto del mondo accelera e diventa ancora più potente, meglio rimanere nascosti e aspettare “tempi migliori”.

La storia, ad ogni modo, andrà avanti…

Così la Storia andrà avanti e non la riprenderemo mai. E poi che Europa sarebbe? Parliamo di Europa Potenza, ma potrebbero renderla tale gli stessi che hanno aperto le porte ai migranti e alla decostruzione dell’identità europea, che hanno finanziato le politiche lgbt, che hanno permesso la deindustrializzazione in nome delle idiozie ambientaliste, che prendono solo ordini da burocrazie finanziarie e che ogni giorno chiedono scusa per non sembrare troppo poco antifascisti? Tutto vero, verissimo, sacrosanto. E allora? Pensate se la stessa cosa l’avesse pensata un Garibaldi a metà Ottocento, quando le dinamiche convergevano tutte verso la nascita di un soggetto nazionale italiano. “Ma l’Italia che nascerebbe non è l’Italia mazziniana che sogniamo”.

È vero, infatti l’Italia che fu fatta fu bruttissima. “Eh ma come mettere insieme tanti staterelli che si odiano e che hanno situazioni politiche, sociali e antropologiche così diverse?”. Vero, infatti una volta fatta l’Italia si creò una discrepanza politica economica e umana devastante. “Eh ma se facciamo l’Italia al governo rimarrebbero i liberali cavouriani con le loro trame di asservimento ai grandi potenti europei”. Verissimo, nessuno avrebbe mai mosso un dito senza il permesso inglese o francese né prima né subito dopo l’unità.

E quindi? E quindi Garibaldi se ne fregò e combatté sempre e comunque per fare l’Italia. Intanto si faccia, poi si vedrà. Pensate se avesse detto “no, ora no, meglio aspettare un Mussolini al governo in modo che ci pensi lui, nel modo migliore, a fare l’Italia ideale”. Secondo voi cosa avrebbe mai potuto fare un Mussolini se invece di fare la Rivoluzione avesse prima dovuto fare da zero l’Italia unita? Il tutto mentre il resto del mondo coglieva i frutti della Grande Guerra. Probabilmente non avremmo mai avuto né un’Italia, né una Rivoluzione. Il tutto perché, quando la Storia ha bussato, invece di agire si sarebbe preferito idealizzare l’utopia e aspettarla.

Le illuminanti parole di Julien Rochedy

Proprio in queste ore Julien Rochedy ha scritto delle parole illuminanti, nella loro semplicità e nel loro presentare quello che dovrebbe essere fin troppo elementare. Ma che, purtroppo, non lo è.

Bisogna essere in grado di separare i contesti storici dai politici che li sfruttano. Quando Macron inizia improvvisamente a parlare di riarmo, con il tipo di capovolgimento che gli riesce così bene, fa parte di un contesto storico che è indipendente da lui. Senza dubbio pensa astutamente di poterlo sfruttare, ma si sbaglia. Sta solo accompagnando un processo, una delle cui fasi principali è il disimpegno di lui e di ciò che rappresenta. Lo stesso vale per i Von der Leyen e per la classe politica che ha gestito l’UE per anni.

Non si può essere stati l’incarnazione organica dell’impotenza, del desiderio di lasciarsi alle spalle la Storia, dell’economia totale/fine della politica e della liquidazione del soggetto identitario a favore di un mondo liquido e cosmopolita, sia a livello francese sia a livello europeo… e poi voler incarnare il contrario, cioè una Francia e un’Europa vive, attive, armate, e quindi necessariamente più radicate e carnali. Questo non è possibile. Sostenere il movimento in corso in questo momento non significa quindi sostenere Macron, anche se lui sembra metterlo in moto. Al contrario, significa sostenere un processo che lo porterà naturalmente a lasciare l’incarico. Perché ogni nuovo contesto storico richiede un rinnovamento della classe dirigente che lo incarni. È una legge della storia”.

Mito e utopia: capire chi siamo

Già, alle leggi della Storia non si sfugge. Ricordo perfettamente che, tre anni fa, l’accelerazione messa in moto dall’aggressione russa, portò a stravolgimenti ideologici e a stranezze dialettiche. Repubblica, la testata cardine della cancel culture, della fluidità spirituale, del no border e chi più ne ha più ne metta, si lanciava nella glorificazione dei soldati che difendevano i confini e la nazione. Era chiaro, qualcosa a livello storico era in atto e le dinamiche stavano cambiando i paradigmi. Una cosa positiva, in teoria, ma ovviamente si disse che “se è Repubblica a dirlo allora è sbagliato, se lo dicono loro è perché sotto sotto pensano altro e hanno piani malevoli”. E quindi avemmo camerati che condannavano i soldati che difendevano il fronte.

Oggi abbiamo Calenda che parla di Europa come “comunità di destino”, Scurati che evoca Jünger e i guerrieri d’Europa, la Von der Lyen che evoca immagini futuriste come il “porcospino d’acciaio” (davvero c’è qualcuno che ha criticato questa immagine come “orribile” invece di coglierne la bellezza marinettiana? Sul serio?). Quando i nostri nemici iniziano a remare nella direzione che noi avremmo sperato, è davvero intelligente remare contro solo per reazione? Davvero vogliamo arrivare al punto da diventare NOI, che parliamo tanto di fascismo, di Mussolini, di arditismo, di futurismo e di rivoluzione, essere NOI quelli che, di fronte alla Storia che spinge verso una Europa indipendente e armata, si ergono addirittura a fautori del disarmo, della disgregazione, del benaltrismo del tipo “invece che spendere per armarsi pensiamo prima alle buche nelle strade”?

Vogliamo davvero essere le brutte copie dei compagni degli anni Dieci e degli anni Sessanta e Settanta utilizzando le loro stesse idee, la loro stessa prassi, il loro stesso spirito? Vogliamo davvero, in un futuro ideale in cui l’Europa si sarà fatta per bene, essere ricordati come i briganti reazionari e sovversivi che remavano contro di essa quando si metteva in moto la fase della sua creazione embrionale? La risposta a questa domanda dovrebbe dire molto di noi.

Carlomanno Adinolfi

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