Roma, 10 giu – Per la seconda notte consecutiva, Los Angeles è stata teatro di proteste e violenze dopo l’arresto, avvenuto domenica, di un giovane afroamericano da parte della polizia. Cortei inizialmente pacifici si sono trasformati in guerriglia urbana: sassaiole, incendi e saccheggi mirati ai danni di attività commerciali in centro città. Scontri frontali con le forze dell’ordine. Decine gli arresti e molti agenti feriti.
Los Angeles teatro di duri scontri
Nel corso della notte tra lunedì e martedì, la situazione è ulteriormente degenerata con il coinvolgimento delle truppe federali, inviate a supporto della polizia locale. Una mossa che ha scatenato una dura reazione politica: il governatore della California Gavin Newsom ha definito l’intervento “un atto di occupazione militare” e ha annunciato un ricorso formale contro la Casa Bianca. “Non permetteremo che la California venga militarizzata da un governo federale che ha perso ogni legittimità morale”, ha dichiarato Newsom in conferenza stampa, accusando l’esecutivo di “strumentalizzare l’ordine pubblico a fini elettorali”. Dal canto suo, il Dipartimento della Sicurezza Interna ha parlato di “azioni necessarie a ristabilire la sicurezza pubblica in un contesto dove le autorità locali sembrano incapaci di farlo autonomamente”.
Un déjà vu nella crisi americana
Scene simili si sono già viste in numerose città statunitensi negli ultimi anni: Minneapolis, Portland, Atlanta. Ogni volta, il copione si ripete: un episodio controverso che coinvolge le forze dell’ordine, proteste spontanee, infiltrazioni violente, reazioni politiche divergenti. Ma il caso di Los Angeles sembra aggiungere una dimensione ulteriore, perché stavolta lo scontro non è solo tra piazza e istituzioni, ma tra istituzioni stesse: Stato e Federazione, autorità locale e autorità centrale, due visioni opposte di cosa debba essere l’America. Più che un incidente isolato, l’ondata di disordini appare così come il sintomo di una frattura più ampia. Sociale, certo — il divario economico e razziale rimane esplosivo in molte metropoli americane — ma anche culturale e antropologica. In una società che ha fatto dell’individuo la misura di tutto, la gestione del conflitto sembra sfuggire ogni volta ai meccanismi ordinari di coesione. L’America, superpotenza globale, si mostra fragile nella sua stessa tenuta interna.
A Los Angeles escono le crepe di un modello
Al di là delle dichiarazioni ufficiali, la domanda che aleggia è se il modello americano sia ancora in grado di reggere sotto il peso delle sue contraddizioni. La risposta non è scontata. I disordini californiani avvengono in un contesto già segnato da sfiducia istituzionale, polarizzazione crescente e diffusione capillare di ideologie frammentarie, spesso inconciliabili tra loro. Come notava già negli anni ’70 il filosofo Giorgio Locchi, l’America è “una potenza senza forma”, nata da una frattura piuttosto che da un’origine comune. Secondo questa lettura, il progetto americano — basato sull’utopia dell’eguaglianza assoluta e sulla separazione radicale da ogni radicamento culturale europeo — tende strutturalmente all’instabilità. Non è quindi un caso se le sue crisi sociali più gravi non sembrano trovare una sintesi politica, ma solo alternarsi in cicli di polarizzazione e repressione
E l’Europa osserva…
Per l’Europa, tutto questo non può essere solo cronaca estera. Negli ultimi decenni, il continente ha spesso guardato agli Stati Uniti come a un modello culturale e politico. Ha importato il linguaggio, i codici, le priorità — perfino le divisioni interne. Eppure, ciò che accade oggi a Los Angeles dovrebbe funzionare da monito: il rischio di traslare in Europa modelli costruiti su fondamenta così diverse è quello di destabilizzare le nostre società dall’interno. L’America si è sempre pensata come una Terra Promessa. Ma ogni promessa, prima o poi, va mantenuta. O viene tradita. E quando le promesse si scontrano con la realtà delle comunità, dei territori, delle identità storiche irriducibili, può capitare che prendano fuoco.
Sergio Filacchioni