Roma, 6 feb – Ha un viso estremamente grazioso. Con uno sguardo intenso: fiero e dolce, al tempo stesso. Ed una femminilità sobria. Un sorriso a tratti fanciullesco. Ma non è una fashion blogger. E’ la lituana Kristina Černiauskaitė. Classe ’86, un lavoro “ufficiale” alla facoltà di sociologia dell’Università di Vilnius fino all’estate 2017 ma una passione particolare che la porta a viaggiare in tutta Europa (e non c’è, ormai, paese del Continente in cui non sia stata).
Kristina è una fotografa “amatoriale”, con una speciale attenzione rivolta al mondo ultras. Di questo microcosmo a Kristina interessano il senso di identità, il gesto virile, un certo afflato “cavalleresco”. In un mondo, quale quello del calcio, in cui a dettare l’agenda sono sempre più gli interessi economici spersonalizzanti, un certo ambiente ultras (soprattutto quello dell’Est o delle serie “minori”) rappresenta ancora una resistenza ideale e di stile. Non c’è alcuna esaltazione della violenza becera o prepotente. C’è l’attenzione alla passione viscerale, profonda che ogni ultras prova per i colori della propria città. C’è la descrizione del gesto fisico, “maschio”, leale.
Il calcio come metafora della vita e di determinate concezioni del mondo che vanno scomparendo. E di “appartenenze” costantemente negate, nella vita di tutti i giorni, che nella maglia e nella bandiera della squadra cittadina trovano una metafora importante. Negli scatti di Kristina c’è uno sguardo poetico, “puro”. E anche una certa malinconica nostalgia. Basti vedere le foto negli stadi ormai abbandonati. Gli spalti invasi dalla vegetazione. Il senso di quiete e di pace, nella solitudine scandita dal cielo infinito. Nello “sguardo” della macchina fotografica di questa incredibile lituana c’è il senso “residuo” di un mondo alla sua fine. Di una sfrontata e caparbia opposizione ai (dis)valori imperanti del “politicamente corretto” a cui tutti coloro che amano in modo esagerato il proprio club oppongono la fratellanza, l’irriverenza, il combattimento schietto, faccia a faccia. Ottenendo, spesso, solo una stigmatizzazione superficiale. In una società che condanna senza appello ogni volontà di identitarismo ed educa, sin dalla scuola, al rifiuto delle proprie radici, alla pretesa del soddisfacimento di ogni capriccio individuale ( non importa quanto assurdo ), alla resa, alla delazione, alla delega costante di fronte alle proprie responsabilità, all’emotività esasperata, al piagnisteo.
Maurizio L’Episcopia
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In un mondo sempre più globale e spaesante, il mondo ultras, pur con tutti i suoi difetti ed i suoi problemi, è uno degli ultimi terreni dove affondano le radici del senso di appartenenza, dell’identitá storica, del gruppo, dell’appartenere ad un territorio, dell’essere, e non del sembrare e del comprare, come ci vuole la moderna societá