Roma, 18 ott – Chi fa politica, associazionismo, impresa, cultura, qualche “modello” strategico e operativo deve averlo, in testa e nel cuore. E deve pensare di realizzarlo nel proprio tempo e nel proprio spazio. E deve sapersi cimentare con la realtà, da quella “fisica”, contingente, a quella 4.0, senza perdere di vista una dimensione umanista e sovrumanista senza la quale tutto si appiattisce verso l’indifferenziato e il meccanico. Parafrasando un vecchio motto degli anni 70-80 della “nuova destra” underground, riferendosi alla democrazia: “La Tecnologia è una cosa troppo bella per lasciarla ai soli Tecnocrati”, sembra essere calzante. Nel fenomeno tecnologico/tecnocratico va ricompreso il corollario di linguaggi e subcultura che esso dissemina e di cui è impregnata. Nella neolingua “millennials”, venendo al dunque, oltre al termine (spesso abusato) di start up, tra i più gettonati c’è “smart city”, ovvero la città “intelligente” intesa come, simultaneamente, “dinamica”, “interconnessa”, “sostenibile”.
Sono tante, si legge, le dimensioni che contribuiscono a rendere una città smart: mobilità, informazione, risparmio energetico, attività culturali, partecipazione (reale), sicurezza, opportunità economiche. È essenziale però che si parta innanzitutto da una visione coerente e complessiva dello sviluppo della città, che preveda l’individuazione di eccellenze, competenze, ed impegno riconosciuto da tutti i protagonisti del territorio. Questa visione strategica dalle molteplici implicazioni organizzative ed operative rappresenta una forte scommessa sul futuro per passare dall’attuale democratismo impotente, corrotto e corruttibile, alla “Comunità Organica” (vogliamo chiamarla così?) del Terzo Millennio.
Oggi si sperimentano le Community interattive (dal social network ai processi partecipati, più o meno presi in considerazione dai municipi di riferimento ma spesso svuotati di ogni capacità di intervento sul territorio) alle “Reti di Impresa”, nuove forme di aggregazione tra produttori e professionisti che, attraverso l’adesione ad un programma comune e condiviso, maturano l’attitudine a generare sinergie con le altri componenti del territorio o della stessa filiera produttiva, nel quadro di uno sviluppo economico organico che va retto, in teoria e con tante difficoltà nella pratica, da una governance meritocratica fondata sulle competenze e sull’attivismo, per reggere allo tsunami globalista e alla standardizzazione su scala universale.
ll termine smart city è divenuto negli ultimi anni decisamente popolare negli ambienti accademici e tecnologici. Può essere immediatamente derubricato a volgare neologismo americanofilo oppure, per chi decidesse di cavalcare la tigre, spiegato, contestualizzato, sviluppato e persino “dominato”. Con questa espressione gli addetti ai lavori (economisti, sociologi, urbanisti, comunicatori, ecc.) identificano un territorio urbano che, grazie all’uso diffuso e pervasivo di tecnologie evolute è in grado di affrontare in modo innovativo una serie di problematiche e di bisogni. Tante, in questo senso, sono quindi le forme secondo le quali una città può essere definita “smart”.
Smart come mobilità sostenibile. Le città (e i territori che attorno a esse si sviluppano) sono sempre più congestionate e necessitano quindi di nuovi modelli di gestione e governo della mobilità che valorizzino il trasporto pubblico, introducano tipologie e modelli di trasporto (per esempio, i modelli di condivisione del mezzo), prevedano servizi innovativi di monitoraggio, analisi, pianificazione e gestione dei flussi dei cittadini e dei mezzi di trasporto.
Smart come attività senza muoversi. Una città è smart anche quando non obbliga i cittadini a doversi per forza spostare. In particolare, un utilizzo diffuso e pervasivo dei servizi e prodotti ICT permette di svolgere remotamente, senza muoversi, moltissime attività: dallo shopping, alle prenotazioni, pratiche burocratiche, corsi, consulenze, riunioni, alle attività di lavoro di gruppo e di progetto. Basta uno smartphone. Ma deve essere davvero efficace, intuitivo e interattivo.
Smart come buona informazione. Una città smart è capace di raccogliere e diffondere informazioni in modo capillare e continuo, sia per quanto riguarda la normale vita sociale ed economica, sia per quanto riguarda la gestione di situazioni di emergenza.
Smart come risparmio energetico. Una città smart è in grado di sfruttare tutte le moderne tecnologie per il risparmio energetico e, in generale, per ridurre l’impatto sull’ambiente che deriva dalla presenza e dalle attività di migliaia di persone e prodotti che in varie forme consumano energia e producono rifiuti.
Smart come vivacità e dinamismo. Una città è smart anche quando è capace di generare e promuovere attività culturali e ricreative che qualificano il territorio, attirano talenti, arricchiscono il tessuto urbano e ne stimolano creatività e crescita sociale.
Smart come socializzazione. La crescita dimensionale delle città e il loro progressivo trasformarsi in grandi agglomerati dove si perde la dimensione dell’”agorà”, rende sempre più concreto il pericolo della perdita di coesione sociale e dell’impoverimento dei momenti di incontro e socializzazione. Una città smart è capace di inventare nuove forme di partecipazione che, coniugando l’utilizzo delle nuove tecnologie e nuove forme sociali (reali, fisiche) di incontro, siano in grado di rinnovare e ricreare il tessuto dei rapporti umani e le opportunità di confronto e condivisione.
Smart come sicurezza. La sicurezza delle persone e delle cose è divenuta in molte città una delle principali preoccupazioni. Una smart city innalza il livello di sicurezza grazie all’uso di soluzioni innovative di sorveglianza del territorio e di assistenza ai cittadini.
Smart come buongoverno. Una città smart offre nuove forme di governo in grado sia di monitorare e gestire il territorio e le dinamiche che in esso si sviluppano, sia di valorizzare il rapporto continuo e reciproco con i cittadini, le imprese, le entità vive che su di esso operano e si sviluppano. E’ un processo rivoluzionario che non può partire dal nulla e non può reggersi sul nulla, tantomeno essere modello mutuato da una matrice calata dall’alto (quelle di Casaleggio&Co., tanto per intendersi).
La pervasività della rete e la disponibilità di apparati sempre connessi hanno reso possibile la nascita di nuove forme di partecipazione e influenza che nascono dal basso. I cittadini sono oggi in grado di agire volontariamente e influenzare l’operato delle amministrazioni. Così come i fruitori di TripAdvisor si fanno condizionare consapevolmente dai commenti di altri utenti che già hanno sperimentato risorse ricettive, allo stesso modo gli abitanti della città possono dotarsi di strumenti di valutazione dei servizi pubblici, di segnalazione di problemi di degrado urbano, di monitoraggio ambientale. Sono azioni in grado di incidere in misura potenzialmente rilevante sulle amministrazioni, sulle scelte politiche, sui comportamenti degli abitanti, sulla qualità della vita e dei servizi e durante le situazioni di emergenza. La nascita di queste iniziative dipende dall’intuizione e dalla creatività degli individui, ma da sole non sono sufficienti. Occorre creare massa critica e sostenere la popolazione locale affinché raggiunga un livello sufficiente di cultura digitale. L’amministrazione pubblica dovrebbe in tal senso stimolare la presenza di questi fenomeni, avvalersi della loro incisività, incoraggiando le forme di auto-organizzazione meritocratica che nascono e si sviluppano sugli stessi social media e nel territorio.
Una smart city (ma possiamo chiamarla come vogliamo, basta intendersi) può nascere solo da una visione organica (quindi, tout court, politica) dei processi di sviluppo del territorio e da una governance efficace e capace di orchestrare e coordinare tutte le iniziative (pubbliche e private) che nel loro complesso portano alla creazione di una città “nuova”.
E’ necessario perciò operare a diversi livelli: definire una strategia di quali siano gli obiettivi di medio-lungo periodo che la città si pone, sviluppare le infrastrutture abilitanti quali, ad esempio, le reti in banda larga wireless e fisse, le reti di sensori ambientali, abilitare lo scambio intelligente e diffuso di informazioni e servizi, grazie alla creazione di interfaccia operativi tra soggetti pubblici e privati, definire una governance dei processi di sviluppo e ”per obiettivi” che sancisca la collaborazione tra istituzioni, enti pubblici e privati che operano sul territorio – promuovere lo sviluppo di applicazioni e servizi, sia nel pubblico che nel privato, che siano coerenti e sinergici tra loro (il contrario di quanto si riscontra nella maggior parte delle attuali realtà urbane e suburbane dove pare che ogni centro di interesse vada per conto suo).
Sono azioni all’apparenza semplici e persino ovvie, ma la cui implementazione richiede una matura consapevolezza da parte di tutti gli attori presenti sul territorio che spinga ciascuno a “fare la propria parte” in modo coordinato e coerente, e non dispersivo e caotico. Se una città smart si caratterizza per le proprietà e funzioni discusse in precedenza, senza sfociare nella narrazione futurologa, i vantaggi sono molteplici: migliora la qualità della vita del singolo, aumenta l’attrattività e la competitività del territorio, semplifica il lavoro delle imprese, genera nuove opportunità di sviluppo economico e sociale, aumenta il livello di partecipazione dei singoli alla vita politica e culturale del territorio.
Non dobbiamo però confondere la “smart city” con una città meramente dotata di un sistema di comunicazione wireless, così come un sistema ferroviario non è solo la messa in opera di binari. Ovviamente, servono anche i “binari”, ma una smart city non la si crea, per esempio, semplicemente attraverso progetti come le reti wi-fi cittadine. Certamente, maggiore connettività (gratuita o a basso costo) a disposizione dei cittadini potrebbe facilitare la diffusione e fruizione di certi servizi, comunque sia, le reti wi-fi non sono un fattore che di per se stesso generi servizi innovativi o comunque diversi e migliori rispetto a quanto oggi è già operativo. Ovviamente, questi servizi sono molto utili e desiderabili, ma se concepiti come isole a se stanti, rischiano di non essere efficaci o addirittura irrealizzabili. Per esempio, per fornire servizi di infomobilità di valore è necessario pensare non solo a sofisticati sistemi di pianificazione e ottimizzazione dei flussi di traffico, ma anche e soprattutto a come raccogliere e integrare (in tempo reale o quasi) i tanti dati che sono indispensabili per realizzare queste funzioni di simulazione e calcolo: movimenti dei mezzi pubblici e privati, movimenti dei cittadini, stato dei lavori pubblici, operatività dei servizi (per esempio, la raccolta rifiuti o la condizione delle strade, etc). Se non ci fosse modo di raccogliere e organizzare questa molteplicità di informazioni anche il più sofisticato sistema di monitoraggio, pianificazione e controllo risulterebbe nei fatti inutile.
L’aspetto forse più caratterizzante le città italiane è tuttavia il loro cuore “antico”, il centro storico, la piazza del quartiere e il patrimonio culturale e le piccole imprese d’eccellenza diffuse: più che un limite verso la loro modernizzazione, questa caratteristica può essere invece una straordinaria occasione per una forte caratterizzazione identitaria e può (anzi deve) diventare il laboratorio dove sperimentare le tecnologie e le soluzioni più avanzate. Queste specificità comportano risposte differenziate: non solo efficienza energetica, dunque, o riduzione dell’inquinamento, controllo della sicurezza o mobilità sostenibile, ma anche valorizzazione dei centri storici, creazioni di reti del commercio, introduzione di nuove soluzioni di welfare, realizzazione di filiere corte alimentari e distributive. L’identità di una città va infatti tutelata e rafforzata. Le tecnologie applicabili al contesto urbano sono moltissime: rigenerazione urbana, design, sensoristica e nuovi materiali, cloud e Internet of things, nuovi sistemi di mobilità di persone e merci, solo per citarne alcune. Ma per cogliere in maniera autentica e duratura le grandi opportunità aperte dalla sempre più invadente innovazione tecnologica, le tecnologie devono ritornare a essere strumenti (e non fine) e vanno comprese in profondità, cogliendone con chiarezza anche le ombre o addirittura i lati oscuri (peraltro in aumento).
Vi sono due correnti di pensiero rispetto al contributo della tecnologia nella vita quotidiana e quindi rispetto al ruolo della città come emblema del pieno manifestarsi della tecnica: quella più “naturista”, dove è il vivere collettivo che la città (e l’uso spregiudicato della tecnica) ha corrotto. Queste teorie predicano dunque il ritorno a uno stato di natura libero e innocente. Altre come ad esempio quella di Bacone, danno invece alla tecnica e quindi alla città ideale, il compito di ricomporre uno stato corrotto e degradato dall’animo selvaggio ed egoista dell’uomo. È certamente questa seconda visone da cui deriva il concetto di “città intelligente”. Molti grandi pensatori si sono cimentati con la città ideale: pensiamo alla Città delle donne di Aristofane o alle visioni platoniche. Ne “La Repubblica”, inizio e matrice di moltissime successive utopie, si parla di una città ideale, cercando di definirne un modello astratto che in qualche modo prescinda da ogni possibilità pratica di realizzazione.
Attualmente le smart cities vengono più che altro “vendute” non tanto per attuare una città ideale quanto come ricette per combattere un futuro apocalittico, fatto di carenze energetiche, sovraffollamento, traffico invivibile, inquinamento diffuso e problemi diffusi di sicurezza (tensioni etniche, terrorismo, microcriminalità diffusa). Si confronti in tal senso il saggio di Piero San Giorgio “Sopravvivere al collasso economico”, Morphema Editrice, 2014.
Il tema va quindi affrontato nel modo giusto e non semplicemente imitando modelli “allogeni”. L’approccio, infatti, non deve essere una pallida imitazione dei modelli americani che partono da una visione catastrofica del vivere urbano (caos diffuso, insicurezza sociale, problemi di energia e inquinamento ecc.) e danno alle tecnologie digitali un potere quasi taumaturgico, deve piuttosto diventare l’occasione per riflettere a fondo sul futuro delle nostre città, riunendo attorno a focus progettuali competenze e slanci rivoluzionari.
Carlo Maria Breschi