Roma, 15 ott – Hanno fatto molto scalpore le dichiarazioni che oggi il premier Giorgia Meloni ha rilasciato al Senato riguardo l’invio di armi ad Israele. La leader di FdI ha affermato che “dopo l’avvio delle operazioni a Gaza il governo ha sospeso immediatamente ogni nuova licenza di esportazione” e che “tutti gli accordi firmati dopo il 7 ottobre non hanno trovato applicazione“. Il problema però sono quelli precedenti al 7 ottobre.
Stop alle armi ad Israele: vediamoci chiaro
“Le licenze autorizzate prima sono tutte analizzate caso per caso dall’autorità competente alla Farnesina“. Lo ha detto sempre il presidente del Consiglio Giorgia Meloni in sede di replica nel dibattito sulle comunicazioni al Senato in vista del Consiglio europeo: “Voglio ricordare che la posizione italiana del blocco completo di tutte le nuove licenze è molto più restrittiva di quella applicata dai nostri partner, Francia, Germania Regno Unito: questi partner continuano a operare anche per le nuove licenze una valutazione caso per caso, noi abbiamo bloccato tutto“. Il governo quindi sembra volersi allineare a Spagna e Francia nello stop di invio di armi all’Idf, ma le ombre lasciate sulle “commesse” precedenti al 7 ottobre sono molteplici. Sono di maggio infatti alcune inchieste proprio sull’export di armi dell’Italia: dati inediti dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli ottenuti da Altreconomia attestano che solo nei mesi di dicembre 2023 e gennaio 2024 l’Italia ha esportato in Israele armi e munizioni da guerra, non per uso civile, per oltre due milioni di euro. Impressiona il valore dell’export della categoria “Bombe, granate, siluri, mine, missili, cartucce ed altre munizioni e proiettili, e loro parti” relativo ai mesi di dicembre 2023 e gennaio 2024, cioè nel pieno dell’attacco militare di Israele a danno della popolazione civile della Striscia di Gaza e dell’assunzione di misure cautelari da parte della Corte internazionale di giustizia dell’Aia per “plausibili” atti di genocidio commessi da Tel Aviv: 730.869,5 euro a dicembre dello scorso anno, quasi raddoppiati a 1.352.675 euro a gennaio 2024. Insomma, che l’Italia fosse il terzo fornitore di armi allo Stato Ebraico non è un mistero: rischia però di risultare un bluff quello di stamattina, se non si fa chiarezza sulle commesse precedenti al 7 ottobre, commesse che possono durare anche anni e che hanno certamente fornito armi ad Israele nei momenti più “infami” e critici della sua rappresaglia sulla striscia di Gaza. Il ministro della Difesa Guido Crosetto infatti dopo aver inizialmente sostenuto che le “vendite armi ad Israele” fossero state “sospese dopo il 7 ottobre”, ha dovuto ammettere in Senato che le “licenze di esportazione verso Israele autorizzate prima del 7 ottobre erano già state in gran parte utilizzate, mentre su quelle non ancora utilizzate, cioè quelle già autorizzate prima, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama) ha fatto una valutazione caso per caso”.
L’Italia vuole smarcarsi
Evidente, almeno dopo i recenti sviluppi tra la missione Unifil in Libano e le forze d’aggressione israeliane la volontà del Governo Italiano di mettere una distanza tra noi e Tel Aviv, in pieno accordo con altre nazioni europee. “Pur se non si sono registrate vittime o danni ingenti – ha dichiarato Meloni, sempre al Senato riferendosi ai recenti attacchi al contingente Unifil – io penso che non si possa considerare accettabile. Ed è esattamente la posizione che l’Italia ha assunto, con determinazione, a tutti i livelli. È la posizione che io stessa ho ribadito al primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu”. Ha poi continuato: “Difendiamo il diritto di Israele a vivere in pace e in sicurezza, ma ribadiamo la necessità che questo avvenga nel rispetto del diritto internazionale umanitario. Perché non siamo insensibili di fronte all’enorme tributo di vittime civili innocenti a Gaza, che non a caso sono state dall’inizio al centro del nostro lavoro” – e ancora – “Riteniamo perciò che l’atteggiamento delle forze israeliane sia del tutto ingiustificato, oltre a rappresentare una palese violazione di quanto stabilito dalla Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Per contro, non si può non tenere presente la violazione della stessa risoluzione compiuta negli anni da Hezbollah, che ha operato per militarizzare l’area di competenza di UNIFIL”. C’è quindi un cerchiobottismo che rende queste dichiarazioni (stop delle armi incluse) “tutto e niente”: disarmo di Hezbollah ma diritto di Israele a vivere in pace, stop all’invio di armi ma solo quelle post 7 ottobre. Le tagliole d’altronde sono molteplici: da un lato la Corte Internazionale di giustizia – che il 20 maggio ha formulato la richiesta di emettere mandati di arresto sia nei confronti del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e del ministro della Difesa Yoav Gallant; sia del capo di Hamas nella Striscia Yahya Sinwar, e dell’alto vertice delle Brigate al Qassam, Mohammed Deif – che potrebbe portare anche l’Italia sul banco degli imputati perchè “si sarebbe reso complice della facilitazione della commissione di atti plausibilmente genocidiari, nella piena consapevolezza di questo rischio“; dall’altra parte la Corte penale internazionale, che invece si occupa di responsabilità penali individuali. Se la Camera dei giudici dovesse individuare prove sufficienti contro i leader israeliani incriminati, allora anche in quel caso si potrebbe configurare una responsabilità penale individuale in capo agli esponenti al vertice del governo italiano per aver facilitato gravi crimini internazionali, cioè crimini di guerra e contro l’umanità. Il procuratore contesta infatti l’aver affamato intenzionalmente la popolazione civile, il crimine di guerra di sterminio, l’aver condotto attacchi intenzionali contro i civili, violando così il principio di distinzione.
Il Governo rischia su più livelli
L’Italia aderisce dal 2013 al Trattato delle Nazioni Unite sul commercio di armi, che su questi punti è molto chiaro: il Governo avrebbe potuto prendere in considerazione il rischio che le armi potevano essere utilizzate per “commettere o agevolare gravi atti di violenza di genere o atti di violenza contro donne e bambini”. E se dopo la concessione di un’autorizzazione fosse venuta a conoscenza di “nuove informazioni rilevanti” – cosa che dopo il 7 ottobre sarebbe impossibile negare – era incoraggiata dal Trattato a “riesaminare la sua autorizzazione dopo aver consultato, se necessario, lo Stato importatore’”. Tutto questo però non è accaduto. In nessuno Stato del mondo si potrebbe aggiungere. Almeno siamo in buona compagnia. C’è quindi un grande raggiro internazionale sulla questione armi ad Israele: la volontà di smarcarsi – troppo tardi – dal grande mattatoio che si sta svolgendo nel Vicino-Oriente. Ora che però si stanno facendo dei passi avanti – a livello Europeo – per fermare il Governo Sionista di Tel Aviv, l’Italia, anche in ottemperanza al suo mandato Onu che la vede posizionata in Libano sotto il fuoco dell’Idf, deve dimostrare di essere “veramente” più dura e fare un decisivo passo avanti in seno all’Europa e allo “zoccolo duro” dell’Occidente stesso. Riconoscere lo Stato Palestinese. Dal 28 maggio Spagna, Norvegia e Irlanda hanno formalizzato il riconoscimento dello Stato di Palestina, mentre a livello globale lo ha già fatto il 70% circa dei membri Onu, tranne appunto Italia, Francia, Germania, Gran Bretagna e Stati Uniti. Bene lo stop alle armi, ora però blocchiamogli veramente tutto – comprese le forniture vecchie (altrimenti è solo un colpo di smacchiatore sulla coscienza) – riconosciamo finalmente la Palestina e difendiamo i nostri uomini in Libano con tutte le forze, politiche e militari.
Sergio Filacchioni