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«Tra l’Occidente liberale e gli oscurantismi c’è una terza via»: Eléments intervista Adriano Scianca

by La Redazione
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Adriano Scianca occidente

Roma, 25 apr – Proponiamo la traduzione italiana dell’intervista ad Adriano Scianca, realizzata da Xavier Eman per il sito della rivista francese Éléments a proposito del libro Europa vs Occidente, uscito in italiano per Altaforte e in francese per Nouvelle librairie.

La sua ultima opera è consacrata alla dicotomia tra Europa e Occidente, tema ricorrente e centrale soprattutto nel pensiero della Nouvelle Droite. Perché ha sentito il bisogno di una messa a punto su questo argomento?

«Perché le reazioni alla guerra in Ucraina che ho potuto constatare nel mondo non conformista italiano (ma credo che in Francia la situazione non sia diversa) mi hanno mostrato da una parte ambienti pro russi che hanno seguito la narrazione di Mosca al punto tale di schiacciare totalmente la nozione di Europa su quella di Occidente, facendone un unico blocco “satanico” ostile all’avanzata del “mondo multipolare”; e, dall’altro, ambienti ostili a tale narrazione al punto di schierarsi sic et simpliciter con la narrazione opposta, quella liberale e occidentalista, alla BHL. In pratica, la nozione di Europa è stata ricondotta a quella di Occidente da due direzioni opposte: da chi si opponeva a tale blocco e da chi lo esaltava. Per questa ragione ho ritenuto che fosse opportuno ripartire da questa distinzione elementare».

Pur ritenendo che esista una differenza ontologica tra Europa e Occidente, la sua tesi rifiuta di sottomettersi a qualsiasi manicheismo semplificatore e lei non esita a punzecchiare certe abitudini mentali della destra radicale che, secondo lei, adotterebbe a volte atteggiamenti caricaturali, come quando gli Stati Uniti vengono visti come il Grande Satana. Ma, se non sono il male assoluto, gli Usa non restano comunque il ​​principale nemico di un’Europa sovrana, potente e indipendente, che sola potrebbe davvero competere con loro?

«Confesso di nutrire un certo scetticismo nei confronti della categoria di “nemico principale”, che mi sembra derivare da una cattiva lettura di Schmitt. Il giurista tedesco è un maestro del pensiero concreto e quando parla del nemico e dell’amico ha in mente uno scontro esistenziale che è già in atto da prima che le analisi politologiche si mettano in moto. Viceversa, se io mi mettessi ora a stilare una classifica dei nemici principali, mettendo in fila una serie di potenze geopolitiche sulla base delle mie simpatie e antipatie filosofiche, compirei un esercizio molto astratto, quindi molto poco schmittiano. Oggi il nemico principale di un ucraino è la Russia? Il nemico principale di un italiano nel 1915 era l’impero austro ungarico? Il nemico principale di un francese andato al Bataclan la sera del 13 novembre 2015 è l’islam? Ho l’impressione che in tutti questi casi sia sempre la realtà a scegliere per noi, prima di qualsiasi valutazione filosofica. Comunque non voglio eludere la domanda: certamente gli Usa restano una potenza spiritualmente, culturalmente, geopoliticamente ed economicamente anti europea. Su questo non ho alcun dubbio. Gli americani ci vedono ancora come l’impero corrotto da cui sono fuggiti per fondare la Nuova Israele. Rifiutare il manicheismo moralistico che vede negli Usa il Grande Satana e in chiunque si dichiari anti americano un alleato oggettivo non significa fare un passo verso Washington ma, al contrario, impostare la possibile autonomia dagli Usa in un modo meno infantile e più realistico, quindi anche più efficace».

Lei afferma, a giusto titolo, che il rifiuto dell’Occidente non deve essere confuso con il neo luddismo tecnofobo e una volontà di tornare alla lampada a petrolio. Senza cadere in questo eccessi, il senso della misura, il rispetto della natura e dei suoi limiti, la volontà di lotta contro la hybris di una certa fuga in avanti tecnoscientifica non fanno forse parte del dna europeo?

«Gli antichi romani sacralizzavano i confini, posti sotto la tutela del dio Terminus, ma non cessavano di spostarli sempre più avanti. Ogni scoperta, ogni invenzione, dalla ruota al fuoco, dalla polvere da sparo all’energia nucleare fino all’intelligenza artificiale, porta a superare dei limiti e a sperimentarne degli altri. In fin dei conti a nessuno, per quanto “faustiano” egli sia, piace schiantarsi con l’automobile contro un muro a tutta velocità o morire per le radiazioni nucleari. L’assenza totale di limiti sarebbe in effetti invivibile. Resta il fatto che una certa tensione verso l’ignoto, verso l’avventura, verso il rischio, verso la scoperta e la sperimentazione mi sembra connaturata allo spirito europeo e quasi solo a esso. Ovviamente questo tratto identitario vive una complessa dialettica con la tensione verso l’ordine, l’armonia, la tradizione. Ma nessun ordine è per sempre, nemmeno quello divino, come ci insegnano le movimentate teogonie indoeuropee. Quello che semmai mi sembra intrinsecamente anti europeo è l’idea di un limite assoluto, di un divieto metafisico, di regole date una volta per tutte, che l’uomo dovrebbe limitarsi ad accettare passivamente. Quanto alla hybris, ricordiamoci che in origine essa è tracotanza d’un uomo contro un suo simile dello stesso rango (ad esempio Agamennone che sottrae il bottino ad Achille) all’interno di un gioco di potenze sempre in tensione e in discussione, non il “peccato” di un uomo che non sa “stare al suo posto” all’interno di gerarchie ontologiche fossilizzate».

Lei scrive che per affermare una «europeità» di fronte agli Usa non basta provarsi di Coca Cola, Mac Donald’s, jeans e Marvel. È incontestabile, ma non so tratta comunque di una premessa indispensabile? Per rifondare questo «essere al mondo» specificatamente europeo che lei auspicam non è necessario sbarazzarsi degli orpelli imposti dal soft power americano nel corso degli anni e che, lungi dall’essere superficiali, formano gli spiriti e i comportamenti?

«Certamente non può esistere un buon europeo che mangi solo Mac Donald’s e veda solo film della Marvel. La mia critica era tuttavia rivolta verso un certo moralismo, che risolve tutta la questione in una gara di purezza individuale. Inoltre credo che un soft power si combatta opponendogli un altro soft power, non giocando a fare gli asceti. Aggiungo un’ulteriore riflessione: l’americanizzazione oggi viaggia di più attraverso i panini di MacDonald’s o attraverso narrazioni che si vorrebbero persino “dissidenti”? C’è un’americanizzazione attraverso il conformismo, certo, ma ce n’è un’altra, forse più pericolosa, che si impone attraverso un presunto anticonformismo. Oggi si è imposta una “dissidenza” che ragiona per schemi strettamente americanomorfi. Qualche anno fa mi è capitato di ascoltare una signora coetanea dei miei genitori, estranea a qualsiasi affiliazione politica radicale, che mi voleva far credere che Biden fosse stato arrestato in segreto mentre i grandi media nascondevano la cosa. Perché questa placida nonnina, che probabilmente non ha mai mangiato un Big Mac, nel cuore dell’Italia profonda e più autentica, mi stava ripetendo con convinzione le idiozie di Qanon? Perché sempre più spesso sentiamo i “dissidenti” seguire predicatori religiosi, adottare categorie politiche messianiche, predicare il diritto assoluto all’autodifesa armata nella propria proprietà? Prima di andare a giudicare gli americanizzati lontano da noi, guardiamo a quelli che sono già in mezzo a noi».

Lei propone la necessità di un certo pragmatismo politico per uscire dal romanticismo improduttivo e dall’assolutismo incapacitante. Fino a dove può spingersi questo pragmatismo, senza rischiare di tramutarsi in compromesso? Per esempio, si può (o si deve) sostenere Emmanuel Macron per la sua aspirazione dichiarata alla creazione di un esercito europeo che potrebbe diventare un pilastro della Europa potenza cui noi aspiriamo?

«Se un governo “nemico” fa qualcosa che va nella direzione giusta, è giusto far notare le sue contraddizioni, la sua inadeguatezza, la sua ipocrisia, ma non si può di punto in bianco sostenere il contrario di quello che abbiamo sempre sostenuto solo per fare un dispetto ai governanti. È chiaro a tutti come l’attivismo di Macron sul fronte della difesa comune sia solo un disperato tentativo di passare alla storia come statista europeo malgrado i fallimenti ottenuti in patria. Così come è chiaro a tutti che il suo profilo antropologico e culturale mal si adatta al ruolo di condottiero che improvvisamente egli pretende di poter interpretare. E tuttavia, dopo aver rimproverato a questa Europa di essere imbelle, indifesa, disarmata, fuori dalla storia, non si può passare a rimproverarle l’esatto contrario solo per paura di essere associati a Macron. Nel mio libro io evoco l’immagine di una “singolarità europea”, sul modello della singolarità tecnologica. Come noto, quest’ultima rappresenta la fase in cui delle macchine intelligenti cominciano a programmarsi da sole, sempre più velocemente, sfuggendo al controllo di chi le aveva progettate per tutt’altri scopi. Allo stesso modo, è possibile che l’Europa potenza, una volta messa in moto da queste classi dirigenti, divenga altro, sfugga al controllo di coloro che l’hanno evocata e li spazzi via. In ogni caso, io non diventerò un partigiano della nostra impotenza solo per paura di sembrare compromesso con il macronismo. Anche perché coloro che muovono simili accuse hanno in genere frequentazioni molto più imbarazzanti».

Nelle ultime pagine del libro, lei evoca come obbiettivo dei «buoni europei» il concetto di Esperia, ripreso anche da David Engels, un termine che può sembrare a prima vista leggermente astruso o quanto meno relativamente disincarnato. Può darne una definizione concreta?

«Si tratta di un concetto che è frutto di una traduzione un po’ creativa di una distinzione heideggerriana. Il filosofo tedesco contrapponeva Occident e Abend-Land. Il primo è l’Occidente che conosciamo, mondialista e sradicante. Il secondo è qualcosa di completamente diverso, è la ripresa del genio greco ma in un contesto che non è più quello greco. I traduttori francesi hanno reso Abend-Land come Esperia (che è peraltro uno dei più antichi nomi dati all’Italia dai greci). Guillaume Faye ha ripreso questo concetto e lo ha elaborato a modo suo. Ovviamente è sempre un po’ difficile dare sostanza concreta a categorie filosofiche, ma nel mio caso il concetto serviva per rompere la dialettica binaria tra occidentalismo illuminista e anti occidentalismo oscurantista. Esiste una terza via: quella che cerca di coniugare forza e libertà, diritto e identità, tecnica e radicamento. Occidente è il nome del luogo in cui il sole muore, Esperia è il nome della terra che custodisce il sole nella notte del mondo, in vista dell’immancabile rinascita».

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