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Calcio e repressione, un sinistro filo rosso

by Roberto Johnny Bresso
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Roma, 22 feb – Quando si parla di tifosi di calcio e della loro repressione, da sinistra a destra, nell’opinione pubblica è sempre tutto un “se l’avessero guardata in tv non sarebbe successo nulla”, “buttate via la chiave”, “metteteli ai lavori forzati”. Ecco quindi che, di conseguenza, tutto l’arco politico ha sempre avuto vita facile nell’accanirsi su di loro. E, cosa se possibile ancor più grave, nello sperimentare sul variegato mondo del tifo (ultras e non) tutta una serie di provvedimenti draconiani da trasferire poi successivamente sul controllo della società in generale. Senza che il cittadino medio avesse la percezione di essere stato di fatto usato e imbrogliato.

Il divieto di accesso alle manifestazioni sportive

Doverosa premessa, prima di entrare nello specifico. Qui non si parla di reclamare nessun tipo di impunità. Chi sbaglia paga e chi ha scelto un tipo di percorso “estremo” allo stadio sa a cosa può andare incontro. Tanto che mi viene da citare un vecchio striscione del gruppo romanista dei BISL: “Per chi l’avesse dimenticato… fare l’ultras è reato!”. Ciò non di meno, alla base del nostro ordinamento giuridico esiste ancora, per fortuna, il fatto che le colpe siano individuali e non di gruppo. E che si sia riconosciuti colpevoli solamente dopo il terzo grado di giudizio. Ma tutto questo, nel “meraviglioso” mondo del calcio, sembra magicamente non essere preso in considerazione.

In Italia ecco così che il 13 dicembre 1989 è entrato in vigore per legge il cosiddetto Daspo. L’acronimo sta per Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive, per anni da tutti chiamato “diffida”. Viene emanato dal questore e, per una durata variabile, interdisce ad un soggetto ritenuto pericoloso l’accesso agli stadi. Inizialmente veniva inflitto a chi si fosse reso protagonista di qualche episodio più o meno grave di violenza. Ma, nel corso degli anni, la sua applicazione è aumentata a dismisura. Fino a colpire soggetti che nei fatti nulla di male avevano compiuto, ma erano altresì, a totale discrezione, ritenuti soggetti potenzialmente pericolosi per l’ordine pubblico.

Inoltre, sempre più di frequente, il Daspo è associato a una o due firme negli uffici di polizia. Prima e durante le partite, rovinando la vita sociale del presunto reo. Questa misura, totalmente spropositata al fatto in sé e che non ha applicazione in altri campi sociali, è unicamente vessatoria e usata come monito. In quanto ora, tra biglietti nominativi e telecamere presenti ovunque all’interno e nei pressi dello stadio, sarebbe comunque impossibile per un tifoso accedere alle gradinate e pensare pure di farla franca.

Calcio e repressione: la follia del Daspo fuori contesto

Per tutti questi motivi, i gruppi ultras, intuendo cosa stava accadendo, negli anni ’90 e nei primi 2000 hanno portato avanti iniziative unitarie con striscioni che profeticamente dicevano “Leggi speciali: oggi per gli ultrà, domani per tutta la città”. Ed ecco infatti che la seconda metà degli anni ’90 ha visto i tifosi usati dalle istituzioni come “palestra” per preparare il G8 di Genova del 2001. Un vero spartiacque per il futuro controllo delle nostre strade.

Naturalmente al solito l’opinione pubblica, instradata ovviamente dai media, non ha colto il messaggio. Relegandolo alla sciocca pretesa da parte di una frangia di violenti di poter liberamente menare le mani. Ed ecco così che, nell’indifferenza generale, siamo arrivati alla gestione pandemica, al Daspo urbano. E, ora, al folle Daspo fuori contesto. Vale a dire alla possibilità data alle forze dell’ordine di impedire l’accesso agli stadi a chiunque sia ritenuto genericamente un tifoso ed un soggetto non incline all’obbedienza cieca.

Per questa ragione nelle scorse settimane sono arrivati centinaia di questi Daspo fuori contesto a persone, parecchie delle quali non frequentavano nemmeno più lo stadio da diversi anni, perché hanno “osato” partecipare al rito del “Presente!” di Acca Larentia, celebrato a Roma lo scorso 7 gennaio. Ecco quindi lo Stato “maestrina” che ti punisce non più perché quello che fai sia un reato (ci hanno provato mille volte, ma alla fine si arriva sempre all’assoluzione), ma perché non mi piace e te lo faccio capire bene, rovinando i tuoi weekend con la famiglia e gli amici.

“Come mai? Vi chiederete…”

Tutto questo servirà a smuovere i comuni cittadini dal loro eterno torpore? Ci spero, ma francamente ne dubito. Più probabile che, tra qualche anno, quando saranno loro stessi a subire lo stesso trattamento finiranno per chiedersi “come mai?”. Come cantavano i Sotto fascia semplice.

Roberto Johnny Bresso

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