Roma, 8 ott – Secondo la massima attribuita erroneamente a Machiavelli, il fine giustificherebbe i mezzi. Concetto per certi versi simile a un famoso aforisma nietzschiano. “Tutto ciò che è fatto per amore è sempre al di là del bene e del male”, anche quando oggetto del reato – il furto del secolo (scorso) – è il ritratto più celebre della storia. Sì, perché al contrario di quanto si possa istintivamente pensare, dietro alla trafugazione della Gioconda, avvenuta nell’agosto 1911, non ci furono motivazioni speculative o legate al mercato nero delle opere d’arte. Bensì un italianissimo amor patrio unito alla volontà di rivalsa.
Vincenzo Peruggia, il “ladro” della Monna Lisa
Il protagonista di questa incredibile – per quanto poco conosciuta – storia si chiama Vincenzo Peruggia, artigiano nato a Dumenza (piccolo comune varesotto situato tra il Lago Maggiore e il confine svizzero) l’8 ottobre 1881. Stuccatore e decoratore, segue il padre in Francia nei primi anni del ‘900, ritrovandosi addetto alla manutenzione dei quadri presso il prestigioso museo del Louvre. Leggendo delle spoliazioni napoleoniche e, in particolare, della sottrazione di diversi cimeli al paese d’origine (anche dello stesso Bonaparte, figlio còrso di una nobile famiglia ligure) pensò di “restituire il favore”. Ignorando che la Gioconda fu semplicemente portata oltralpe dal proprio autore.
Il furto della Gioconda
Nella primissima mattina di lunedì 21 – non sappiamo con certezza se passò nel museo anche la nottata precedente – Peruggia rimosse abilmente l’opera leonardesca, le tolse cornice, vetro e la nascose sotto la divisa da lavoro. Facilitato dal giorno di chiusura, si affrettò nel tornare a casa per far letteralmente scomparire l’inestimabile bottino sotto al tavolo. Come se nulla fosse tornò sul posto di lavoro, giustificando il ritardo con una non meglio precisata sbronza domenicale.
Passarono almeno ventiquattro ore prima che ci si potesse accorgere del furto, un paio di giorni per trovare la notizia sui giornali. Ai limiti del (tragi)comico le indagini, con la polizia parigina che fermò – tra gli altri – pure Pablo Picasso. Fu tirata nel mezzo la Germania e un ipotetico miliardario americano. A nulla portò anche la perquisizione nell’abitazione del “nostro” Arsenio Lupin: beffa nella beffa, le forze dell’ordine compilarono il verbale di regolarità proprio sull’arredo in legno dove il nostro connazionale conservò a lungo il frutto dell’europeo eterno.
“L’ho rubata per l’Italia”
Dicembre 1913, per il ladro-gentiluomo in baffi, carne ed ossa il momento di restituire quanto dovuto alla madrepatria. Accordatosi con un mercante d’arte preannunciò il suo arrivo in quel di Firenze firmando Léonard un telegramma partito da Milano. Ma l’antiquario – inizialmente scettico: l’opera era data per persa – una volta riconosciuta l’autenticità della Gioconda insieme all’allora direttore degli Uffizi avvisò le autorità. L’arresto e il processo non tardarono ad arrivare. Grazie alle simpatie dell’opinione pubblica e di un’arringa difensiva decisamente patriottica la condanna però fu tutto sommato mite.
Chiuse le pendenze con la giustizia Peruggia onorò la patria: lo fece – come tanti nostri nonni e bisnonni – nelle tempeste d’acciaio della Grande Guerra. Prima di morire a quarantaquattro anni esatti (improvvisamente, proprio nel giorno del suo genetliaco) l’ultimo sgarbo ai cugini francesi: con un passaporto falso, come Pietro – suo secondo nome – il definitivo ritorno nell’hexagone.
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Marco Battistini